L’infinito (prima puntata)

infinito

A farmi partire fu un moto di orgoglio. Quanto tempo può durare un’attesa? Avevamo pensato a questa vacanza per mesi e ne avevamo parlato a lungo. Avremmo avuto tre giorni tutti per noi e Dio solo sa quanto ne avevamo bisogno. In prossimità della vacanza però tu smettesti di parlarne e non ebbi bisogno di chiedere alcunché. La nostra trentennale familiarità mi fece interpretare i tuoi silenzi esattamente per quello che erano, un ripensamento. Quella che fino a qualche tempo prima ti era sembrata una bella idea era diventata una limitazione alla tua libertà di fare altro, un vincolo al tuo essere altro indipendentemente da me. Quanto mi aveva fatto soffrire questo tuo stile in passato, quando eravamo giovani e con tutta una vita davanti. Questa volta, però, non sentivo sofferenza.

Fu l’insofferenza a farmi determinare a preparare una valigia e a organizzarmi un viaggio altro da te, lontano da te. E, in men che non si dica, scrissi ad Anna dicendole che, se il suo invito era sempre valido, forse ce l’avrei potuta fare a organizzarmi e fare un salto da lei. Anna l’avevo conosciuta in rete sette anni prima e per quattro o cinque anni almeno il nostro unico canale di comunicazione erano stati i nostri rispettivi blog, poi era arrivato il telefono. In comune avevamo la scrittura, un dolore grande e una data: il 29 settembre che, per quelle che sono certe consonanze misteriose, costituiva per entrambe una sorta di giornata maledetta, una giornata vestita a lutto. La nostra amicizia era fatta di parole, parole scritte soprattutto. Neanche una foto era passata tra di noi in quegli anni. Amiche di parole.

Infilai quattro stracci nello zaino, un libro per Anna, qualcosa da leggere in viaggio, la macchina fotografica, il lettore Mp3 e … tentennai due minuti prima di infilarci dentro con moto stizzoso la confezione di Xanax. Negli ultimi tempi mi sembrava di non farcela più con le mie forze. L’insonnia veniva a visitarmi più volte nel corso della settimana e affrontare il quotidiano era per me come scalare il monte Everest tutti i giorni. E fu per questo che la mia dottoressa, messa al corrente di queste mie fatiche quotidiane, mi aveva prescritto questo farmaco miracoloso. Io l’avevo guardata piuttosto torvamente quando me l’aveva suggerito ché io sono una combattente per indole e da sempre, ma lei mi aveva persuaso che talvolta anche i combattenti possono ricorrere a un aiutino esterno. Mi avrebbe aiutato, sosteneva lei.

Ci avevo anche provato a ingurgitare qualcuna di quelle pastigliette che su di me avevano un effetto anestesia totale. Nel giro di pochi minuti dalla loro assunzione cominciavo a non sentire nulla, ma proprio niente eh. Il vuoto. Me l’ero immaginato il vuoto prima di allora, ma avevo sempre fallato. Nelle mie immaginazioni c’era sempre un sentire. Con lo xanax invece la vita era un navigare in un grigio niente. Il dolore giaceva come sottovuoto ma sottovuoto era imprigionata anche ogni mia pulsione vitale. Non c’ero. Non c’ero più. Fu per questo che scelsi il dolore. La confezione di xanax viaggiava però comunque sempre nella mia borsa quasi come una sorta di copertina di Linus. Poteva essermi utile nel caso di un’emergenza. Chi poteva dirlo? Per queste motivazioni finì anche stavolta nel mio zaino. Non avrei dovuto affrontarlo da sola questo viaggio. Avevo il mio compagno di viaggio segreto.

In treno ero stanca sì, ché per la prima volta dopo tanto tempo mi muovevo, nonostante tutto. Non sono in grado però di dire se a prevalere fosse la stanchezza o la sovraeccitazione. Mi ero imbarcata in un viaggio verso un altrove tutto immaginato. Un altrove dove le mosse sarebbero state dettate dall’improvvisazione. Avevo lasciato il mio spazio ed i consueti percorsi che anche in stato catatonico potevo fare, a occhi chiusi, per forza di inerzia. Ma cosa avrei trovato al mio arrivo? E se io ed Anna non ci fossimo riconosciute come sorelle, così come c’eravamo “dette” in tante nostre mail? Se ci fossimo trovate estranee l’una all’altra, una volta vestite dei nostri corpi? Per quietarmi un po’ cominciai ad osservare i miei compagni di scompartimento e a cucirgli addosso delle storie. Avevo tante ore di viaggio innanzi a me e cominciai a riempirle di innocue fantasticherie.