L’infinito (seconda puntata)

infinitoLe prime ore passarono lente come lento e monotono era il paesaggio che mi correva accanto, ettari ed ettari di vigneti e uliveti prima di arrivare alla sconfinata pianura di grano del foggiano. Man mano che si passava il confine tra regione e regione cambiavano i viaggiatori e i loro accenti, mentre la costa adriatica mostrava senza pudore lo scempio che decenni di barbarie edilizia era riuscito a disegnare. Era già sera quando arrivai. Sul binario mi bastò una sola occhiata prima di riconoscere Anna in una donna piuttosto alta e dalla pelle olivastra. Lo sguardo era di fuoco vivo quando mi si posò addosso. Il riconoscimento fu immediato e in men che non si dica lasciammo la stazione e ci dirigemmo verso un autobus di città. Ti dispiace se andiamo a mangiare fuori? Mi disse. Andiamo in ristorante. Sapendo dello stato delle sue finanze, provai a dissuaderla. Vivere di una pensione di invalidità non è facile in nessun luogo, meno che mai in una città. E per la mentalità mia di paese andare in ristorante è uno scialo che solo in occasioni importanti ci si può permettere. Lei insistette. Ed io dovetti cedere. Il ristorante era una trattoria alla buona dove ci ritrovammo a mangiare a quattro ganasce, senza risparmiarci, mentre il cuoco, che poi era amico suo, veniva a sincerarsi di continuo che tutto fosse di nostro gradimento. Le sedie impagliate e i tavolacci di legno massiccio mi facevano tanto pensare alla cucina della casa di mia madre e ci bastò davvero poco per capire che eravamo davvero intime, io e lei. Il rapporto tra me e lei reggeva anche davanti all’immediatezza dei nostri corpi e le parole, tra noi normalmente mediate e controllate dalla scrittura, fluivano stavolta dalle nostre bocche come fiumi in piena. Stordite di vino e di allegria, accogliemmo infine tre o quattro suoi amici che, sapendo del suo ospite illustre, si erano nel frattempo avvicinati in trattoria.

Io, paesana nell’anima, mi ero portata appresso un cabaret di pasticciotti leccesi nel bagaglio, e fu a questo punto della serata che tra una grappa e l’altra spuntarono i dolci salentini. Il cuoco dismise la sua divisa e si rivestì da amico. Tirò giù d’un colpo solo la serranda del ristorante e tirò fuori la chitarra. E fu subito festa. Sapete cosa manca più di tutto a un fumatore in una cena al ristorante? Tirammo fuori tutto ciò che c’era da fumare, anche lì senza risparmiarci affatto. E fumammo, parlammo, cantammo a lungo. La compagnia si componeva di quattro ragazzi di più o meno mezza età più il cuoco e di tre donne di altrettanta mezza età. Io ero l’attrazione della serata, l’ultima novità arrivata in città. E le attenzioni nei miei confronti non mancarono, come non mancarono i complimenti. Mi sembrava di essere nel bel mezzo di una scena di un film con me come protagonista principale. Bella sensazione, tutto sommato. Ma io che non sono avvezza ad avere gli occhi puntati su di me, a un certo punto cominciai a ritrarmi e a stare un po’ più ai margini della scena. Non che non la possa reggere e anche a lungo una scena ma rischio di annoiarmi velocemente se una parte è troppo lunga. A momenti mi allontanavo col pensiero e mi distraevo rispetto alla situazione. Mi studiai con grande attenzione tutte le crepe del soffitto, le venature del legno dei tavolacci, le nature morte appese alle pareti, le bottiglie di grappa che si svuotavano lentamente e le nuvole di fumo in cui navigavano le nostre persone. A un certo punto cominciai a risentire della stanchezza. Cominciavo a desiderare con forza un posto, quale che fosse, su cui posare le mie membra stanche. Nessuno però sembrava avesse intenzione di archiviare quella serata. Quanto sarebbe durata ancora? Io non ne potevo già più. Cinque minuti ancora e poi ci avrei pensato io a fare capire ad Anna che si doveva andare via. Così pensavo quando la mia attenzione fu richiamata da un ragazzo/uomo della combriccola che era stato silente per tutta la serata. Zitto, aveva assistito allo spettacolo, sorridendo talvolta e fumando. Non aveva toccato un solo goccio d’alcol. Niente grappa per lui. Sollecitato da una domanda del buffone della compagnia che suonava più o meno così Siro, perché non ci parli un po’ della montagna? prese a parlare a voce bassa e con tono pacato di certe sue esperienze. Si fece silenzio tutto attorno a lui e man man che lui raccontava dimenticai ogni mia stanchezza e smisi di desiderare il sonno. Da dove posso cominciare, diceva intanto lui, mi sa che vi racconto la storia della mucca …