Il passo e l’incanto

Il riconoscersi

fu semplice.

Ti corse accanto al passo

ad onda

e a tratti un po’ malcerto

una banderuola di maestrale gonfia

che a mò di balaustra

ti accompagnò alla destra.

Alla sinistra del mio, di passo,

la stessa banderuola

guardò la falda del cappello

che mi rimase accartocciata

nello zaino semiaperto

dove avevo nascosto

il nostro segno di riconoscimento

di cui non ci fu bisogno alcuno.

Ed io che non amo tanto i versi

mi dico

in questa notte dilatata

che l’avrei riconosciuto

tra mille

il passo

che t’ho osservato

per tutto il giorno.

C’è una certa piega

che il tuo piede sinistro

prende

a tratti

una piega verso il dentro

verso il tuo piede destro

e lì

ho temuto che

potessi inciampare

a momenti.

In quella piega

mi è sembrato

di intravedere

poesia.

E mi dico

in questo notturno di te

che forse in certi passi

e incanti

si nasconde

il senso

del nostro claudicante

incedere

nella fatica di questo nostro

vivere.

Ancona, 12 agosto 2017 (h. 2.30 del mattino)

P.S. Prosa lirica nella forma di (quasi)versi a scandire le pause  e il respiro del cuore notturno. Non riesco a immaginare niente di meglio che la canzone che segue come accompagnamento ai miei (quasi)versi notturni.

Il seppellimento dei morti. The burial of the dead.

Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
T.S.Eliot, La Terra Desolata
La prima volta che l’ho vista in quel letto, con le gambe piccole piccole, sono scappata. Non potevo vederla in quell’assenza, era una ferita aperta quel suo sguardo vuoto. Provavo a raccontarle della nostra infanzia, le corse e i balzi dalla terrazza di casa mia a quella di casa sua, di quando avevamo fumato quella nostra prima sigaretta, di come ridevamo di quei maschiacci che si accapigliavano all’uscita della scuola. Lei sorrideva stanca, da un’assenza.
Poi un giorno mi disse: io sono morta. La guardai, sembrava avere una luce diversa negli occhi, quasi un barlume di coscienza. Provai a rassicurarla: “Non sei morta” le dissi, “E’ solo un momento di difficoltà, ma vedrai che ce la farai”.
“Sono morta l’undici aprile del 1965 e c’era mia sorella con me, mi teneva la mano”. Ebbi un sussulto, altro che barlume, stava delirando. Con dolcezza provai a dirle che no, si sbagliava, era lì con me, stavamo parlando ed eravamo nel 1990. Insistette: “Sono morta l’undici di aprile del 1965 e c’era mia sorella con me. Ora ti dico un segreto … in realtà io sono morto, c’era Francesca con me, mi ha accompagnato lei ma poi mi ha lasciato … ed è tornata indietro”. Cominciava a farmi paura, non sapevo cosa dire, lei aveva uno sguardo diverso e cominciava ad agitarsi. Poi disse: “Vuoi vedere com’ ero?”. “Dai Maria su, stai tranquilla …”. “Ti faccio vedere la foto”. E mi fece vedere una foto in bianco e nero. Nella foto un bambino, molto somigliante a Maria, e una bambina, in una piazza, tanti piccioni attorno (sul retro della foto c’era scritto con mano incerta Mario e Francesca, Pisa 1964). “Ma è tua sorella!” Dissi. “Certo” disse lei. “Io e mia sorella”. “Ma tu non eri ancora nata allora. Sei nata nel 1970”.
A queste parole, lei si incendiò, gli occhi divennero rossi dall’ira. “Che cosa dici?” Cominciò ad urlare, “vai via di qua, chi sei? Che cosa vuoi da me? Vattene via”. Maria era in piedi con le sue gambe piccole piccole e avanzava verso di me con fare minaccioso. Io ero annichilita dalla paura, paralizzata da questa violenza inaspettata. Alle urla di Maria, accorse tutta la famiglia ed io mi rifugiai nella cucina della casa, dove piansi per almeno dieci minuti prima di raccontare a Francesca quanto era successo. Seppi così di Mario, morto nel giro di pochi mesi per un linfoma nel 1965, cinque anni prima della nascita di Maria.
Francesca si fece raccontare tutto e impallidì quando le dissi che Maria sosteneva di essere morta, invero morto. Si fece assorta e disse: “io non c’ero”. La guardai allibita, ero stordita. “Quando Mario è morto io non c’ero e nessuno mi ha detto che stava morendo, lui mi voleva accanto a sé, me l’ha scritto in una lettera, non voleva andare da solo, non voleva ma io ero in Collegio a Pisa, io non c’ero”. Francesca aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse un foglietto ingiallito. La stessa grafia incerta che aveva vergato la foto aveva scritto: “Ho paura senza di te. Torna, non farmi andare da solo”.
Non mi fecero vedere Maria in quei giorni, ma io cominciavo a capire qualcosa di più, come in un gioco ad incastro, si formava un quadro.
Quando la rividi era sedata, parlava in modo lento e lo sguardo era spento. Dov’era finita la mia Maria, dove se ne era andata?
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Chi è il terzo che sempre ti cammina affianco?
Se io conto, ci siam soltanto tu ed io insieme
Ma se io guardo innanzi a me per la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina a fianco
Scivolando avvolto in un bruno ammanto, incappucciato
Io non so se uomo o donna
– Ma chi è che ti sta all’altro fianco?

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T.S.Eliot, La Terra Desolata

 

 

Venne il ragno

Venne il ragno
E si mangiò la parte destra
Persi la logica e le parole
Lobotomizzata percorsi
La strada dell’abbandono

Rivenne il ragno
E ci provò con la sinistra
Si perse in una rete
Di fiori, di cuori, di battiti
Che tu non vedesti né sentisti.

Per tua incapacità
Per mia incapacità
Per solitudine mia e tua
Per distrazione tua
Per distrazione mia.

La luce bianca fuori
Non sa della notte
Che ci perse
Non può dolersi
Di ciò che non conobbe
Non può.

Venne poi ancora un ragno
E mi sorrise
Lo presi per le zampe
E lo appesi al passato.

P.S. Così scrivevo il 5 luglio 2008. Mah! Stavo cercando una cosa che avevo scritto su “I Mangiatori di Patate” di Van Gogh e mi sono imbattuta in questa  vecchia “tela”. Dove sarà finito lo scritto su Van Gogh?

Varianti

Che poi pensavo se io prendo gli ultimi 4 (quasi) versi del calice di cui sotto:

E intanto bevo il calice di queste mie tristezze

tenendo a freno le mie tante incertezze

in questo scarto di  presenze  assenze

di queste nostre fragili esistenze

e li sostituisco con:

E intanto sono sola con lo spettro

di un’incommensurabile tristezza

che mi atterra.

forse suona meglio. Voi che ne dite. Quale vi piace di più? E qui vi sto proprio tirando in causa eh. Qua decidete voi.

Calice d’assenza

40079-09-carra_solitudine.jpg

Carlo Carrà, Solitudine, 1917. Olio su tela.

 

T’immagino tutta presa dal creare

mentre tu ignara dei miei pensieri

tra scatto e scatto ti devi allontanare

tra oggi e ieri tra dentro e fuori.

Mi taccio per non molestare

e zitta zitta me ne sto sul limitare

giacché per quanto ci si possa somigliare

c’è un momento in cui ci si deve fermare

e giusto poco poco discostare.

Un’angoscia però io non so dominare

e viene da lontano il mio tremore

viene da un passo che si allontana

per mai più ritornare

e mai vorrei

e mai vorrei.

Ma è il gioco della vita

 io mi dico

oggi ci sei

domani non ci sei.

E intanto bevo il calice di queste mie tristezze

tenendo a freno le mie tante incertezze

in questo scarto di  presenze  assenze

di queste nostre fragili esistenze

P.S. I (quasi)versi di cui sopra sono stati occasionati da un mio stato d’animo contingente, il pensiero, l’emozione di un momento. Li voglio dedicare a tutte le persone che mi è capitato di abbandonare per strada e mi è capitato mi è capitato. Io, che soffro di sindrome dell’abbandono da che mi ricordo, mi sono allontanata talvolta senza dire una sola parola. E senza voltarmi, neanche. Io sono una che se ne va. Me li porto appresso gli abbandoni e le ferite che ho lasciato, specie alcune. Specie una. Ma lo so solo io e credo che a poco valga.

Obliandosi

DSCN6435

Torre Lapillo h.6.30 del mattino

Piano scivola il passo sulla rena

mentre immemore del corpo intero

il mare si riprende la scena

mareggiando leggero leggero.

P.S. Io sono donna di prosa ma ho fatto un’incursione tra le rime per descrivere il mio stato d’animo di stamattina con poche parole. I poeti della rete se la prendano con quel (bruno) Dio che esiste e vive a Bruxelles ed anche con la mia gamba tagliata e sappiano che non intendo passare ai versi. Una tantum mi si può perdonare?