Breve riflessione sui tempi verbali e la scrittura.

Pensavo all’effetto straniante che fa il passato remoto se riferito al “vicino”. Mi piace ma è un po’ come mettere “distanza”, un allontanarsi dal prossimo così ben definito, quasi un mettere un alone attorno alle cose, sfocare, uscire dalla nettezza delle cose e dare loro una dimensione più onirica. Il passato remoto, forse, è anche il tempo della nostalgia, è un bere al calice dolce-amaro del dolore del ritorno. E quanto ci ho bevuto io a quel calice! Quanto!

Per me adesso è il tempo del presente, del passato prossimo al più. Mi piace tenermele addosso le cose della vita, così nette, tanto violente talora, con tutti i loro colori, messi a fuoco bene, quasi impressi nella mia carne. Mi crocifiggo al presente, ora. E’ così.

Un giorno (tutto) questo dolore ti sarà utile

No, questa non è la recensione del libro che non ho letto. Probabilmente ne ho visto l’adattamento cinematografico qualche anno fa. La trama che ho riletto pochi minuti fa su wikipedia mi sembra nota ma al momento non saprei dire se mi è piaciuto o meno. Non ricordo. Il titolo, però … accidenti che titolo!

Lo prendo in prestito, oggi, per spiegare una cosa che di tanto in tanto mi lascio sfuggire nei commenti ma che non chiarisco mai fino in fondo perchè i commenti non sono proprio il mio forte. Nella maggior parte  dei casi sono dei distillati di pensiero gettati lì a volte in forma aforistica e chissà, può essere che  li capisco solo io. Della serie: me la canto e me la suono.

Tema del giorno: il dolore e la scrittura. Mi cito da alcuni miei lapidari commenti di ieri a un post meraviglioso di la MelasBacata: Io credo che si scriva sempre a partire da un “abbandono”, a partire da un “vuoto”. La felicità e la pienezza fanno scrivere poco. Arriva poi il momento di mettere argini al dolore a costo di perdere la scrittura. Il dolore deve sedimentare, poi diventa scrittura, dopo sorriso triste e dopo ancora … semplicemente vita dietro le spalle. Per me almeno è stato così. 

Anche da Franz mi era capitato di commentare in modo simile e poi altrove ho definito “santa” la bluitudine che fa scrivere un’altra penna.

Oggi provo ad uscire dalla mia consueta stringatezza e provo a fare un passo in avanti. Parafrasando un libro che a suo tempo fece discutere io credo nella (relativa) banalità del dolore in sé. Il dolore di per sé è davvero poco interessante. Diventa interessante nel momento in cui si “trasforma” in scrittura, poesia, immagine, musica che forniscono un “” τέλος” entro cui inscrivere il tutto, un fine, una intenzionalità precisa.

Tra tutti i miei dolori (e nella vita una buona porzione viene servita proprio a tutti nella nostra privatissima notte oscura), sono affezionata a quelli che si sono fatti “corpo”, “scrittura”, quelli che si sono trasfigurati, che sono diventati altro da sè, si sono fatti “storia”. Ce ne sono stati altri infecondi, che se mi guardo indietro è come se si fossero volatilizzati lasciando nel vuoto dei perché senza risposta.

In questi giorni ho visto due bellissimi docufilm, uno su Amy Winehouse e un altro su Janis Joplin. Quante cose in comune tra loro, quanta passione, quanto dolore. Sono andate via troppo presto. Che peccato! Sono morte prima di imparare a “decantare” il dolore. Se ne sono fatte schiacciare. Peccato.


Scrivere la vita

Ci sono stati anni in cui io l’ho scritta la vita, dove non c’era nulla che non fosse mediato dalla scrittura, mediato o addirittura “costruito” a volte. Della serie: “scrivo dunque sono”. Quanto di “vero” c’era e quanto di “fittizio” mi è davvero difficile dire. E’ stato un periodo molto strano della mia vita, una transizione e non la sola. Ci sono stati anni in cui non ho scritto una sola parola, in cui ho “vissuto” senza nessun atto di ri-flessione o di ricostruzione. Sono stati anni importanti, fondamentali ma se mi giro a guardarli trovo quasi il “niente” e mi risulterebbe difficile “raccontarli” adesso. Ho chiuso tante porte, a volte bruscamente tra un capitolo e l’altro. E oggi? Forse oggi è una via di mezzo. Forse.

La tartaruga un tempo fu …

Svirgola’s Tartaruga su noce

Tartaruga.jpgPitturando la mia piccola tartaruga su noce pensavo che mia madre forse aveva ragione quando mi diceva: Certe cose non si dicono … e a casa nostra certe cose non si dicevano, non si dicevano mai. Mai. I sentimenti non si dicevano mai. Forse per questo mi sono messa a scrivere. Se non li potevo dire, almeno li potevo scrivere. Ora che ho una certa età però forse dovrei saperlo che certe volte i sentimenti possono anche non essere scritti. Possono mettere in imbarazzo. Possono essere male interpretati. E chi ce l’ha la chiave per capire certe esternazioni! Devo essere più cauta. Andarci piano. E certe volte sentire senza necessariamente dire e senza necessariamente scrivere. Ma questo post non sarà mica in contraddizione con questa nuova linea di condotta? E chi se ne frega. Così pensavo. Punto.

Filo rosso

filo-rosso

Convitato di pietra, chissà se hai voluto giocare a carte scoperte o se sei stato tradito dal gravatar collegato ad altro sito. Solo tu potresti disvelarlo se mai dovessi ripassare a leggere quanto di tanto in tanto scribacchio. Io scrivo sempre per “te”, e in questo “te” di tanto in tanto si incarnano anche “altri” come T, ad esempio, che io ho scelto a mia interlocutrice privilegiata, un’interlocutrice difficile a volte, difficile in modo diverso da come eri tu perchè lei scrive di “cose diverse” ma ne scrive in un modo che ti piacerebbe e anche tanto, secondo me. E’ passata tanta acqua sotto i ponti e tante cose sono cambiate dal tempo in cui tu facevi “incursione” nei miei tanti blog  lasciando parole che mi hanno tenuta “attaccata alla vita” in quel momento di grande confusione e di incommensurabile dolore. Mi hai tenuta attaccata alla vita con le tue parole perchè le parole sono importanti, nel bene e nel male. Qualcuno all’epoca del blog madre pensò addirittura che ti avessi inventato. Te lo ricordi? E invece ti aveva inventato la vita per me, il destino che mi proiettava in avanti laddove io non vedevo niente altro se non un grande buio. “Piove, piano ma piove” scrivevo e poi …la storia di Maria e  le canzoni di Fossati e tanto altro. Ogni tanto ma raramente io ci ritorno nella mia”casa madre” qui in rete, io che sono l’unica ad avere le chiavi di una casa invecchiata e piena di polvere, forse l’unica casa che riconosco come mia, ma non per rileggere i miei deliri passati ma per ritrovare te nelle tue parole. Per risentirti. E ogni tanto quando penso di volere scrivere sul “serio” penso di ripartire da “I racconti dell’Anonimo” perchè così farei se davvero decidessi di uscire dalla dimensione diaristica e scrivere del “mondo altro”. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto e meno male perchè in questo grande mondo piccolo piccolo le affinità di spirito ci sono, e ci sono le fratellanze e le sorellanze di parole. Potrei anche dire “il filo rosso”

La radio (sesta ed ultima puntata)

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Nonna dai dai che comincia …

Passarono quattro o cinque giorni in cui lo zio Serafino spiava la Clara con attenzione in cerca di segni che lo aiutassero a capire che cosa doveva fare con questa ragazza, finché una mattina lo zio le si rivolse con tali parole: Clara, stavo pensando prima che non manca tanto al tuo compleanno e quest’anno vorrei farti un bel regalo … e se ti intestassi questa casa, che ne diresti? La Clara sorrise e scuotendo la testa disse di no. E se, invece, ti lasciassi le terre? Ancora una volta la Clara sorrise facendo di no. Figlia mia, continuò lo zio, io questo ho e te lo vorrei dare. Ma un desiderio non ce l’hai? Una cosa che io ti possa regalare e …  La Clara ci pensò sopra appena un po’ prima di dire tutta seria: Sì, zio. Io a casa mia me ne voglio tornare e al mio giardino, tu sei stato tanto buono con me e pure con le bambine in questi anni ed io te ne sono grata ma … ora a casa voglio tornare. Lo zio si fece quasi di pietra ché questa proprio non se l’aspettava, ma se la Clara questo desiderava … e di che cosa vivrai? Io ti aiuto, lo sai, che qua ozze e granai sono sempre pieni, finché ci sono ti aiuto io ma poi? Io non sono mica eterno, sai? La Clara ci pensò un istante e poi disse Zio, e se mi regalassi un bel telaio come quello della Nunzia? Qua in paese ragazze da maritare ce ne sono tante e con i corredi … chissà! Magari ce la posso fare …  E fu così che in capo a una settimana Clara, una bambina nella mano destra e una nella mano sinistra, se ne tornò a casa sua con qualche anno in più sulle spalle ma il passo più leggero, come il suo cuore. Lo zio Serafino, la sorvegliò a vista per qualche settimana e quando gli fu chiaro che ormai la Clara stava bene e sì, ce la poteva fare, ce la poteva fare anche senza di lui piano piano la lasciò andare.

Nonna dai dai che comincia …

Tra orditi e trame su un piccolo telaio a 6 licci, la spoletta della Clara volò da mane a sera, confezionando i più bei sogni delle ragazze del paese. E tanto era lo strepito del telaio che l’intero quartiere sapeva le sue ore di sonno e di veglia. Che gran lavoratrice quella Clara, diceva ora la Ersilia in chiesa, l’ho sempre detto io che era una gran donna, onesta e seria. Adesso che si era ripresa la roba che era della famiglia sua, sangue del suo sangue, aveva perso un po’ del suo livore, ma non tutto, la Ersilia. Eh già … non tutto. Tutto aveva ritrovato a casa dello zio Serafino la notte che il biroccio si era schiantato e lo zio Serafino nella caduta aveva dovuto salutare questo mondo per l’ultima volta, aveva ritrovato tutto tovaglie, asciugamani, la imbottita rossa, le lenzuola di lino e quelle di lana ma quella bella radio di radica di noce dello zio Serafino, quella no. Alla Clara era andata e non era mica tanto giusto questo … sarebbe stata così bene quella radio a casa della sua Teresina!

Nonna dai dai che comincia …

Vengo, vengo …

Ce ne hai messo ad arrivare! Non posso fare a meno di dirle quando arriva e lei sorride. Quanto è impaziente questa nipotina quando si tratta delle storie. Chissà da chi l’avrà ereditata questa passione! Così pensa la Clara mentre si sistema dalla parte destra del lettone. La radio è sul comodino di sinistra e sono io l’addetta all’accensione, regolazione del volume e spegnimento a fine puntata, ché la nonna ormai si addormenta dopo due o tre minuti e nei sogni se ne va a mangiare ceci tostati al fuoco col suo Giovanni e se non ci fossi io …

 Oggi comincia il nuovo radiodramma: Paese d’ombre. Chissà come sarà questa nuova storia dal titolo così misterioso. Shh!!!

Il bambino bussò al cancelletto di legno, ch’era in tutto simile a quello della casa di sua madre nel vicolo del Carrubo, e aspettò in silenzio; dopo un poco la voce potente e rauca di Don Francesco Fulgheri si fece udire dall’interno della casa: “Chi è?

“Sono io!” strillò Angelo con la sua vocetta, la sua voce da chierichetto, come diceva Don Francesco per farlo arrabbiare. Senza attendere oltre, il ragazzo spinse il cancello, che si aprì con un lungo gemito.

Domani è un altro giorno

vento

Ed ora che sono di buzzo buono … sì ora o mai più caro convitato di pietra. E tutto ciò solo per ammazzare il tempo che alla fin fine se ammazzi il tempo non è che poi ti scaglino in gattabuia a finire i tuoi giorni a smacchiare  il leopardo alla resa dei conti! Come va, mi chiedi, come va? C’è del marcio in Danimarca, dici? Ma no,  caro convitato di pietra. Riferisci a Madama la Marchesa che va tutto bene.

Fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio? E da quand’è che un convitato di pietra ha da fidarsi? E’ fuori funzione, è fuori registro. A meno che tu non abbia qualche santo in Paradiso, che ti abbia rifatto i connotati, alle Calende greche lo trovi un convitato di pietra che si fidi del suo ospite. E poi, la diciamo tutta?, vuotiamo il sacco?  da quanto tempo ti ospito io? E non lo sai che dopo tre giorni l’ospite puzza?

In tempi non sospetti, ossia ai tempi che Berta filava, facevo la punta agli aghi per dirla tutta. Già, usando tutte le lettere dell’alfabeto italiano e facendo incetta talora anche a  qualche alfabeto straniero, rifacevo la punta agli aghi tutti i giorni scrivendo un giorno di questioni di lana caprina e il giorno appresso di aria fritta. Al di là del bene e del male andando dietro alle chimere talvolta e talaltra andando a caccia di farfalle, grazie alla mia buona stella sbarcavo il lunario con buona pace di tutti i detrattori che, casalinghe di Voghera, cavalcavano la tigre tutti i giorni per far cadere il cavallo di razza.  Chi sarebbe il cavallo di razza? Ma che c … (omissis) di domande fai convitato di pietra? Che devo chiamare l’avvocato del diavolo? Vabbè che dare fastidio ti è connaturato, insomma sta proprio nelle tue corde ma non tirare tanto la corda che prima o poi si spezza sai! Dicevo, ai tempi che Berta filava scrivevo a briglia sciolta. Avevo carta bianca e volontà a gogò e gli argomenti non mi mancavano di certo illo tempore. Come l’Araba Fenice, anche la questione più bieca sbrilluccicava tutta come oro al sole, di tra le mie parole. Ahi come sono cambiati i tempi adesso, mala tempora currunt. Ed io, cane sciolto, con la pretesa di voler raddrizzare le gambe ai cani mi sono scontrata con i mulini a vento e ho incominciato a fare un buco nell’acqua dopo l’altro. Ed ora che vedo il sole a scacchi, mi cospargo il capo di cenere sì … ma non lo butto il bambino con l’acqua sporca ché è universalmente noto che se è vero che ammazzando il tempo non ci finisci in gattabuia a smacchiare il leopardo o il ghepardo (fai tu, qui puoi scegliere!), ammazzando il bambino sì che ci finisci dietro le sbarre!

E adesso forse è meglio che alzi i tacchi e batta in ritirata, andandomene alla chetichella. L’ispirazione è ormai agli sgoccioli e a voler cavar sangue dal muro si rischia di fare di questo post una Fabbrica di Santa Giustina e di fare scappare a gambe levate i quattro malcapitati lettori di questo blog che, bontà loro, si sono sottoposti alla lettura di cotanto nonsense perché alla fin fine siamo nati per soffrire o no?

P.S. Siccome io i miei polli li conosco, proprio a voi due o tre mi sto riferendo!, vi sfido a trovare un solo rigo che non sia infarcito di luoghi comuni. Se non ce la fate oggi, fatelo domani. Non è mai troppo tardi e dopotutto “domani è un altro giorno”.

Ciccio Riccio

Diversi anni fa, quando ancora vivevo sull’isola, sono andata a seguire un ciclo di conferenze di uno psicoterapeuta che se non ricordo male si chiamava Ciccio Riccio o qualcosa del genere, forse più qualcosa del genere, perchè uno psicoterapeuta che si chiami Ciccio Riccio proprio non si può sentire, non credete? Comunque sia, Ciccio Riccio un giorno parlando dell’uso dell’ipnosi per andare a investigare i traumi rimossi sottolineò in un intervento come talvolta è meglio non andare a sollevare la polvere sotto il tappeto. In quella polvere si possono annidare mostri difficilmente gestibili dai più senza parlare delle false memorie che possono scaturire da una simile operazione. Il succo era che certe volte è meglio convivere con le proprie ansie e nevrosi, affrontando la depressione, quando si presenta, con alcuni trucchetti, lavorando sui comportamenti presenti per eventualmente modificarli piuttosto che andare a scavare nel passato remoto per trovare la causa prima. Io credo di essere d’accordo con Ciccio Riccio. Io e le mie nevrosi certe volte siamo buone amiche, altre volte ci guardiamo con astio, spesso ridiamo di noi stesse. Di certo mi sentirei piuttosto sola, per non dire abbandonata, se all’improvviso, scoperta la causa prima, dovessero abbandonarmi.

Qualche anno fa, in un’operazione di scrittura, ho provato a tirare fuori qualcosa dal mio passato più lontano. Ho scritto tanto ma mi sono massacrata fino a che giocoforza ho dovuto mettere un punto. Un bel punto. Mi stavo facendo troppo male. Stavo tirando troppa povere da sotto il tappeto e forse anche false memorie e (ri)costruzioni più o meno probabili e dolorosissime.

Perchè vi racconto tutto ciò proprio non lo so. O forse sì. Girando tra blog trovo scritture profonde, da cui si intuisce tutta l’umanità e la sostanza di chi scrive. Poi vengo qui da me e scrivo bazzecole. Cazzeggio spesso restando alla superficie delle cose, senza affrontarle mai. Parlo di me e della mia gamba tagliata, dell’ascorbato e della clorella che mi sono compagni di viaggio in quest’estate squinternata, ma saranno pressoché sconosciuti ai quattro lettori che, bontà loro, mi fanno l’onore di leggere i miei quattro scleri.

E’ che vorrei tornare a scrivere un po’ con l’anima e non mi riesce… proprio non mi riesce. Vado a lavare i piatti allora. E magari dò una spazzata al pavimento perchè la polvere sotto il tappeto non la posso togliere (tra l’altro non c’è alcun tappeto qui) ma quella sul pavimento magari sì.

P.S. Time for a song: Saturation. La sto ascoltando proprio or ora.

Ogni scarpa una camminata

Credo che sia un effetto della clorella se ieri sera ci ho messo un bel po’ ad addormentarmi. Il ritmo cardiaco era accelerato, decisamente accelerato. Per distogliere l’ attenzione dal mio corpo ho incominciato a pensare alla scrittura. Dora nel suo blog paragona l’atto della scrittura ad un amplesso amoroso, per me invece la scrittura è un atto solitario che nasce da un vuoto, da una mancanza, come le scrivevo in un commento.

“Non si scrive se non da una mancanza” scrivevo io stessa tempo fa altrove.

Per Marguerite Duras (scrittrice che io ho amato visceralmente) “La scrittura è l’ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità”, cosa che condivido appieno. Qualcuno scrive per terapia, qualcun altro per necessità, alcuni giocano con le parole, qualcuno le strapazza le parole. Per parafrasare Moretti in uno dei suoi film più riusciti (Bianca) “Ogni scrittura una camminata” (il virgolettato è mio).

Io credo che scrivere sia un atto di grande narcisismo. L’atto della creazione. Dal nulla, dalla combinazione nuova di segni già usati o abusati talvolta… tutto un mondo. Ci sono scritture lineari, altre più complicate. A seconda del momento o dell’umore io, come lettrice, prediligo le une piuttosto che le altre. Alcune scritture lavorano per sottrazione, e distillazione del senso e lì il lettore è invitato a partecipare attivamente alla costruzione del senso che non si offre nudo e crudo ma deve essere ri-costruito con un atto ermeneutico non privo di difficoltà, talvolta. E’ il caso di T. che secondo me è una scrittrice nata.

E’ qui che mi si è fermato il pensiero ieri. La tachicardia è passata ed il sonno è arrivato, benevolo. In questi giorni scrivo poco e dormo tanto. Ne ho bisogno.

P.S. Canzone del giorno: Le mie parole

Anche Violette era 048

L’altra sera ho visto Violette. Per essere più esatta mi sono fatta fagocitare da questo film che ho trovato straordinario e mi ha sollecitato a riflettere su tante cose. Non conoscevo la Leduc. Mai letto niente di suo ma ora che so di lei la cercherò e la leggerò.

Nel frattempo ho cercato di saperne di più. Girovagando in rete mi sono imbattuta nella recensione che Sabrina Campolongo ha fatto del suo romanzo  La bastarda, recensione lunga ma puntuale e interessante. La recensione di una scrittrice su una scrittrice.

Qui mi fermo perchè oggi sono davvero a corto di energie.

P.S. L’altro giorno al telegiornale di RAI2 ho visto il video dell’abbraccio a Taranto tra una donna che manifestava contro l’ILVA e un poliziotto. “Siamo tutti 048” diceva la donna … Eh già siamo tutti 048, siamo tutti 048 … è diventato una specie di mantra per me in questi giorni. Siamo tutti 048 , siamo tutti 048, siamo tutti 048 …

Anche Violette è stata 048.