Trenitalia … che passione

Stazione d’Ancona, h. 10.10 del mattino. Siamo (quasi) pronti per partire. Accendiamo l’ultima sigaretta dando un’occhiata al monitor. Il treno è in orario. Tra qualche minuto dovrebbe essere qui.  Ah … eccolo qui. La carrozza è la terza e il compagno ci ha visto giusto. La carrozza n. 3 si ferma proprio davanti a noi. Lei esce per prima. Vedo per prima una criniera folta e fulva, poi spunta la sigaretta. L’abito è a fiori su fondo nero. Il resto lo intuisco al volo. Scendono degli altri passeggeri e poi saliamo a bordo noi. Carrozza 3 posti 64 e 66. Ci sistemiamo comodamente e rapidamente e già il treno riprende la marcia, col compagno bello contento Meno male che siamo a favore di marcia. Pochi minuti e torna lei: capigliatura folta e fulva su un abito a fiori. Si abbandona sul sedile di fronte al compagno non prima di essersi prodotta in un sospiro lungo e potente. Si dà un’occhiata attorno e comincia: Ah maledette sigarette. Bisognerebbe proprio smettere eh … ma io non ce la faccio. E dire che mia madre c’è morta e mia zia … l’abbiamo ripresa per i capelli. L’ho ripresa io stessa con quattro medici del 118. Ha preso ad ansimare sull’ultima sigaretta. Le abbiamo dovuto dare l’ossigeno. Non respirava più. Inforco un paio di occhiali da sole e tiro fuori la Settimana Enigmistica. No, no, io non ci parlo no. Comincia male questo viaggio con tutte queste morti … . Il compagno, invece, abbocca ed anche bello e contento. E’ un chiacchierone lui. Tra una orizzontale e una verticale, però, mi arriva bello e distinto il discorso e non posso astrarmene. E così scopro che la zia almeno si è salvata, lei non è morta. Ha smesso (di fumare) ed ora respira. Ah quanto respira bene adesso!!! 

Poi attacca: Dove andate voi? E il compagno: scendiamo al capolinea, Lecce. E lei, io vengo da Cattolica, dove abito da trent’anni. 

Io mi sento un po’ sollevata. Forse si cambia discorso. Fra un’orizzontale e una verticale sorrido.

Intanto lei: Ma è morta Cattolica, non è più com’era un tempo. Ora è morta. Adesso va Riccione. Sta morendo anche Rimini. C’è rimasta solo la droga e la delinquenza a Rimini … ma io non sono di Cattolica, sono abruzzese, di Tortoreto e sto scendendo per un funerale. Mio cugino … è morto di non si sa che cosa. Gli hanno fatto l’autopsia. E’ morto lunedì e gli fanno il funerale venerdì. Strano, no?

La mamma, la zia (ah no, quella si è salvata, Cattolica, il cugino …). Tra un’orizzontale e una verticale, mi verrebbe di suggerire al compagno di toccarsi poco poco ché non si sa mai … e intanto siamo al confine tra Marche e Abruzzo. Io che sono a favore di marcia mi vedo scorrere velocemente accanto Alba Adriatica e a lei che chiede Dove siamo? rispondo “Alba Adriatica” (che è un bel nome tra l’altro che fino a ieri non avevo mai notato) e lì comincia un certo sbrilluccichio negli occhi della fulva. Che emozione! Che emozione! E’ la prima volta che torno  nella terra mia dopo tanto tempo. Che emozione! Quindi siamo vicini a Tortoreto? Che emozione.

Tempo qualche minuto ed eravamo a Tortoreto e lì lei si è agitata indicando un punto che vedeva solo lei  e gridando: Quella è la strada dove sono nata e quello è l’istituto agrario … che emozione!!!

Tra un’orizzontale e una verticale, mi si sono riempiti gli occhi di lacrime, dietro gli occhiali da sole perchè la fulva ha emozionato pure me sull’intercity  Bologna-Lecce del 17 agosto 2017. A Giulianova è scesa. Io mi sono guardata attorno con curiosità facendo scivolare lo sguardo sulle colline sopra la stazione.

Non vi racconto il resto del viaggio se non per sommi capi. Il treno è arrivato in orario. E dopo una mezzoretta siamo arrivati a casa nostra a Torre Lapillo. Di sera poi, siamo andati a trovare la genitrice e siamo inciampati nella processione che io ho filmato per un piccolo pezzo. Io adoro le “processioni”. Il fervore devozionale mi fa sempre fremere una corda del cuore. Ed è così che la serata si è chiusa su un’altra emozione. Insomma una giornata densa di emozioni!

Il primo video l’ho fatto io ieri sera. Il secondo è il magnifico racconto che Mino De Santis fa delle feste patronali. Se decidete di sceglierne solo uno, prendete il secondo che è meglio. 😉

 

P.S. Ed ora vado a prepararmi la valigia per l’Olanda ché domani si riparte …

Un giorno (tutto) questo dolore ti sarà utile

No, questa non è la recensione del libro che non ho letto. Probabilmente ne ho visto l’adattamento cinematografico qualche anno fa. La trama che ho riletto pochi minuti fa su wikipedia mi sembra nota ma al momento non saprei dire se mi è piaciuto o meno. Non ricordo. Il titolo, però … accidenti che titolo!

Lo prendo in prestito, oggi, per spiegare una cosa che di tanto in tanto mi lascio sfuggire nei commenti ma che non chiarisco mai fino in fondo perchè i commenti non sono proprio il mio forte. Nella maggior parte  dei casi sono dei distillati di pensiero gettati lì a volte in forma aforistica e chissà, può essere che  li capisco solo io. Della serie: me la canto e me la suono.

Tema del giorno: il dolore e la scrittura. Mi cito da alcuni miei lapidari commenti di ieri a un post meraviglioso di la MelasBacata: Io credo che si scriva sempre a partire da un “abbandono”, a partire da un “vuoto”. La felicità e la pienezza fanno scrivere poco. Arriva poi il momento di mettere argini al dolore a costo di perdere la scrittura. Il dolore deve sedimentare, poi diventa scrittura, dopo sorriso triste e dopo ancora … semplicemente vita dietro le spalle. Per me almeno è stato così. 

Anche da Franz mi era capitato di commentare in modo simile e poi altrove ho definito “santa” la bluitudine che fa scrivere un’altra penna.

Oggi provo ad uscire dalla mia consueta stringatezza e provo a fare un passo in avanti. Parafrasando un libro che a suo tempo fece discutere io credo nella (relativa) banalità del dolore in sé. Il dolore di per sé è davvero poco interessante. Diventa interessante nel momento in cui si “trasforma” in scrittura, poesia, immagine, musica che forniscono un “” τέλος” entro cui inscrivere il tutto, un fine, una intenzionalità precisa.

Tra tutti i miei dolori (e nella vita una buona porzione viene servita proprio a tutti nella nostra privatissima notte oscura), sono affezionata a quelli che si sono fatti “corpo”, “scrittura”, quelli che si sono trasfigurati, che sono diventati altro da sè, si sono fatti “storia”. Ce ne sono stati altri infecondi, che se mi guardo indietro è come se si fossero volatilizzati lasciando nel vuoto dei perché senza risposta.

In questi giorni ho visto due bellissimi docufilm, uno su Amy Winehouse e un altro su Janis Joplin. Quante cose in comune tra loro, quanta passione, quanto dolore. Sono andate via troppo presto. Che peccato! Sono morte prima di imparare a “decantare” il dolore. Se ne sono fatte schiacciare. Peccato.


Amiche

Amiche

Amiche

E’ la mia ultima opera ed è una copia di una mia copia di Klimt. Insomma un quadro di secondo grado. Qualcuno che mi segue da un po’ ha già visto la prima. Ora le mettiamo a confronto:

Amiche a confronto

Amiche a confronto

Io amo questi due quadri in modo viscerale. Ritrovo in loro tutto quello che è l’amicizia per me. Siccome ultimamente verbalizzo poco e parlo per la maggior parte del tempo per immagini, vi spiego cos’è per me amicizia attraverso le parole di uno dei più grandi scrittori contemporanei: Tahar Ben Jelloun.

Ali, questa lettera, la porto in me da anni. La leggo e la rileggo senza averla scritta. A partire dal giorno in cui mi è stata annunciata la gravità del male che mi corrodeva, sapevo che dovevo risparmiarti. Troverai questo comportamento ingiusto o strano. Ci avevamo messo più di trent’ anni a costruire questo legame, e non volevo che la malattia, la sofferenza, il dolore lo travolgessero. Perché, vedi, sono tuo amico e ho fatto con te ciò che avrei voluto tu facessi con me se la malattia avesse avuto la tracotanza di colpirti. Ebbi questa idea nel momento in cui iniziai a vedere tutto nero, quando non avevo ancora realizzato che la morte era nella vita e che andarsene non doveva in alcun modo penalizzare i vivi~La morte sono queste ore di attesa in una sala in cui devono chiamarti per farti un esame. La morte è la lettura delle analisi, il confronto dei numeri, è l’ evoluzione di ciò che è sconosciuto. La morte è il silenzio e l’ abisso che temi, li vedi avvicinarsi e inghiottirti. Non potevo evitare questo lutto e questo dolore a mia moglie e ai miei figli. Ma a te avevo la possibilità di evitarlo, attraverso un semplice litigio voluto, una messa in questione della tua onestà, sapendo che era il tuo punto debole. Dovevo allontanarti, lasciarti lontano coi tuoi dubbi, i tuoi interrogativi, la tua sensibilità violentata, con un senso profondo di ingiustizia. Allontanandoti dalla nostra amicizia, ti allontanavi dalla morte e cambiavi pagina~ La tua intelligenza, la tua forza di convinzione potevano far saltare il mio piano. Volevo evitarti la condivisione della morte, perché, conoscendoti, sapevo che tu saresti stato lì, a vivere tutti gli istanti di evoluzione del male, saresti stato accanto a me, accompagnandomi fino in fondo, e avrei letto nel tuo sguardo l’ avvicinarsi della fine, tu eri lo specchio che io non riuscivo a guardare, per debolezza, per una vanità straziata, forse anche lo confesso per una gelosia orrenda e indegna di noi; il tuo viso si sarebbe posto tra la malattia e la morte, alla frontiera dell’ abisso; avrei visto sul tuo viso l’ inizio di un grande sonno, ti ricordi il film con Humphrey Bogart?~ Abbiamo vissuto dei momenti di intensa attività soprattutto quando eravamo nelle mani di quegli idioti di militari che ci parlavano un francese approssimativo perché non riuscivano a parlare diversamente e la cosa faceva parte dell’ umiliazione che ci costringevano a subire. Tu eri forte perché sventavi tutti i loro piani di vessazione. Io mi fidavo di te. Ci completavamo a vicenda, perché io ero forte a parole, sapevo tenergli testa e, al bisogno, sapevo battermi fisicamente. I colpi, tu li ricevevi ma non sapevi renderli. Tu eri cerebrale, io fisico~ Mi sei mancato molto, soprattutto i primi anni in Svezia. Avevo voglia di farti scoprire questo paese, di condividere con te le esperienze della vita quotidiana, di discutere con te il loro modo di vivere, la loro fredda razionalità, la loro grande gentilezza, la loro cultura del rispetto, in breve: tutto ciò che manca nel nostro caro paese~ Ho approfittato della situazione geografica per visitare i paesi vicini. Ho avuto un debole per la Danimarca. Ovunque ho incontrato persone del nostro paese, alcuni esuli o esiliati politici, altri lì per lavoro, con la loro vita in quell’ angolo di mondo. Tutti mi dicevano la stessa cosa: il Marocco gli mancava anche se avevano sofferto. è strana questa relazione forte e nevrotica che abbiamo con la nostra terra natale; guarda me, che ho voluto morire nel mio paese. Forse per i nostri cimiteri. Le tombe sono disposte a caso. C’ è un disordine che non disturba nessuno. I bambini ti propongono di annaffiare la tomba che sei venuto a visitare, i contadini leggono il Corano mangiandosi la metà delle parole per la fretta e guadagnarsi comunque dieci dirham. I nostri cimiteri fanno parte della natura e non sono tristi. Se vedessi quello di Stoccolma! Freddo, ordinato, triste~ Ti ricordi quando hai avuto la tua crisi di ateismo? Mi dicevi che avresti fatto in modo di dare ai tuoi figli dei nomi di albero o di fiore. Rifiutavi qualunque riferimento religioso. Dopo hai superato questa rigidità; l’ hai sostituita con un’ altra: non sopportavi l’ ipocrisia sociale. Sull’ essenziale eravamo sempre d’ accordo~ Ho fatto fatica in questi anni di rottura. Molte volte sono stato sul punto di prendere un aereo e venire a trovarti a Tangeri per spiegarti cosa avevo fatto. Non ne ho avuto il coraggio, e poi era troppo tardi. Credevo nella mia decisione, e non avrei cambiato idea~ In questo momento, ti rendo tutto ciò che ti devo. La nostra amicizia è stata una bella avventura. Non si ferma con la morte. Fa parte di te, che vivi. Mohamed, Tangeri, luglio 2003-gennaio 2004

TAHAR BEN JELLOUN

Svuotatasche della memoria

Svuotatasche della memoria

Svuotatasche della memoria. Acrilico e curcuma su cartapesta.

E’ una di quelle volte in cui la foto non rende. Nella realtà l’oggetto è grazioso. Imperfetto sì, ma grazioso.

Mi faccio perdonare con una canzone della tradizione popolare contadina, canzone che mi tocca sempre una corda del cuore. Mi fa ripensare a quand’ero bambina, quando con mia madre andavamo ad aiutare la nostra vicina di casa ad infilare il tabacco. Era sgradevole sentire le mani appiccicaticce ché le foglie di tabacco rilasciano una sostanza nerastra che ti si appiccica tutta alle dita e anche l’odore era acre, penetrante ma era bello sentirsi parte di un grande rito che da lì a poco sarebbe scomparso del tutto e che rimane però ancora nella memoria. Io non dimentico da dove vengo e tutto quel grande futuro che tra una foglia e l’altra ci immaginavamo. Potevamo immaginarcelo un futuro, allora.

Resistenza verde

Ieri sera a Presa Diretta è stata tramessa la storia di una donna eccezionale Daniela Ducato, che ce ne vorrebbero così … me-ra-vi-glio-sa e ge-nia-le e sta lavorando per tutti quanti noi, ma tutti tutti nessuno escluso. La filosofia di Daniela Ducato in dialetto salentino potrebbe essere riassunta così: “Quannu auru nu tieni cu mammata ti curchi” (quando non hai altro ti corichi con tua madre) che non è propriamente un invito all’incesto ma decisamente tutt’altro, è un invito a guardarsi attorno e ad usare le risorse disponibili che si trovano, a ben guardare. E Daniela Ducato sta davvero “ben guardando”.

Vi linko un articolo dell’Unione Sarda che contiene un estratto del programma. Fa bene sentire storie così. Fa decisamente bene. Ho visto che normalmente i link non vengono aperti. Fossi in voi io farei un’eccezione alla regola. Potrebbe esservi utile sapere di lei. Quando io tra qualche mese darò una passata di bianco o di colore alle pareti di questa casa, andrò a cercarmi Daniela Ducato per esempio e voi non ritinteggiate anche voi ogni tanto? E spero che venda anche on line ché la Sardegna non è propriamente dietro l’angolo ma con e-bay … Sono contenta che questa donna stia dando una mano al Sulcis che ha proprio bisogno di teste così. Brava.

La “Resistenza verde” di Daniela Ducato raccontata a Presa Diretta su Raitre