Il seppellimento dei morti. E se …

Era strano vedere Maria così, non leggeva più, non scriveva, se ne stava lì in lunghi silenzi pervicaci e senza moto, la sua vita in una stanza. Quando cominciò a stare un po’ meglio, provai a farla uscire da casa. Non era facile ché dagli ultimi attacchi di panico che l’avevano presa per strada, lei si era ritratta dal mondo. Qualche volta io però riuscivo a convincerla, bastava che lei avesse il conforto degli ansiolitici nella sua borsetta e la rassicurazione che avremmo evitato i posti affollati e le strade trafficate e cedeva.

Spesso prendevamo una strada di campagna che rasentava il paese; bastava passare la linea ferroviaria, oltre i fichi d’india e i cespugli di more, e Maria riconquistava un’espressione più serena su questi sentieri poco battuti.

Il peggio era passato, almeno così sembrava. Aveva ripreso coscienza. Sembrava riconoscere sua madre ed anche me. Si riappropriava gradualmente dei suoi ricordi, ma guardava sempre da una lontananza, una distanza feroce. Lei non aveva più stimoli, non sapeva che cosa fare della sua vita; non parlava più di università, diceva che ora che Pisa era lontana, non le importava e poi che aveva bisogno di tempo per capire, per capire.

Un giorno affrontai con Francesca l’argomento. “Ascolta Francesca, Maria sta meglio sì, ma non basta, non basta … Io la rivoglio, la rivoglio tutta, sono passati tre mesi ormai, dobbiamo fare qualcosa, i farmaci non bastano più, non ce la riportano indietro. Non vorrei sembrare indiscreta ma ci avete pensato a un’altra terapia? Non trovi che si dovrebbe tentare un’altra strada? Maria ha bisogno di aiuto, bisogna che riesca a focalizzare, bisogna che qualcuno possa aiutarla a ritrovare un filo, a penetrare il click di quel giorno …”.

Francesca mi guardò da una stanchezza, poi disse. “Giulia, Maria sta già molto meglio, non lo vedi? Bisogna aspettare un po’, piano piano ne uscirà. Non abbiamo bisogno di psicoterapeuti. E’ chiaro quanto le è successo. Una crisi di passaggio. Capita a molti a quell’età. Aveva paura di scegliere, di andare a vivere da sola in una città troppo lontana da casa e poi le pressioni di Marco, quelle richieste assurde … come si fa? Come si può pensare di chiedere a una ragazza di 19 anni il matrimonio? Maria non ha retto a tutto ciò ed è crollata, ma sta già meglio, tranquilla, io la vedo in casa come si muove, ne sta uscendo Giulia. Non preoccuparti, vedrai che ce la fa. E’ sempre stata forte Maria, più forte di tutti noi, tranquilla Giulia, tranquilla”.

Non insistetti, ché il suo tono era così definitivo. Non ammetteva repliche.

Poi un giorno accadde una sorta di piccolo miracolo. Passai a trovarla a casa sua. Entrando in cucina sentii la sua risata cristallina: Maria rideva, rideva ancora. Non era sola, c’erano altre risate frammiste alla sua. Uno sguardo d’insieme, mi rimandò un’immagine che nel tempo mi divenne familiare. Seduta al tavolo della cucina, Maria giocava a carte ma con chi? Chi era il ragazzo che mi fece sentire nuda posandomi lo sguardo addosso? Chiunque fosse, lo amavo già. Aveva fatto ridere la mia Maria.

Il seppellimento dei morti. The burial of the dead.

Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
T.S.Eliot, La Terra Desolata
La prima volta che l’ho vista in quel letto, con le gambe piccole piccole, sono scappata. Non potevo vederla in quell’assenza, era una ferita aperta quel suo sguardo vuoto. Provavo a raccontarle della nostra infanzia, le corse e i balzi dalla terrazza di casa mia a quella di casa sua, di quando avevamo fumato quella nostra prima sigaretta, di come ridevamo di quei maschiacci che si accapigliavano all’uscita della scuola. Lei sorrideva stanca, da un’assenza.
Poi un giorno mi disse: io sono morta. La guardai, sembrava avere una luce diversa negli occhi, quasi un barlume di coscienza. Provai a rassicurarla: “Non sei morta” le dissi, “E’ solo un momento di difficoltà, ma vedrai che ce la farai”.
“Sono morta l’undici aprile del 1965 e c’era mia sorella con me, mi teneva la mano”. Ebbi un sussulto, altro che barlume, stava delirando. Con dolcezza provai a dirle che no, si sbagliava, era lì con me, stavamo parlando ed eravamo nel 1990. Insistette: “Sono morta l’undici di aprile del 1965 e c’era mia sorella con me. Ora ti dico un segreto … in realtà io sono morto, c’era Francesca con me, mi ha accompagnato lei ma poi mi ha lasciato … ed è tornata indietro”. Cominciava a farmi paura, non sapevo cosa dire, lei aveva uno sguardo diverso e cominciava ad agitarsi. Poi disse: “Vuoi vedere com’ ero?”. “Dai Maria su, stai tranquilla …”. “Ti faccio vedere la foto”. E mi fece vedere una foto in bianco e nero. Nella foto un bambino, molto somigliante a Maria, e una bambina, in una piazza, tanti piccioni attorno (sul retro della foto c’era scritto con mano incerta Mario e Francesca, Pisa 1964). “Ma è tua sorella!” Dissi. “Certo” disse lei. “Io e mia sorella”. “Ma tu non eri ancora nata allora. Sei nata nel 1970”.
A queste parole, lei si incendiò, gli occhi divennero rossi dall’ira. “Che cosa dici?” Cominciò ad urlare, “vai via di qua, chi sei? Che cosa vuoi da me? Vattene via”. Maria era in piedi con le sue gambe piccole piccole e avanzava verso di me con fare minaccioso. Io ero annichilita dalla paura, paralizzata da questa violenza inaspettata. Alle urla di Maria, accorse tutta la famiglia ed io mi rifugiai nella cucina della casa, dove piansi per almeno dieci minuti prima di raccontare a Francesca quanto era successo. Seppi così di Mario, morto nel giro di pochi mesi per un linfoma nel 1965, cinque anni prima della nascita di Maria.
Francesca si fece raccontare tutto e impallidì quando le dissi che Maria sosteneva di essere morta, invero morto. Si fece assorta e disse: “io non c’ero”. La guardai allibita, ero stordita. “Quando Mario è morto io non c’ero e nessuno mi ha detto che stava morendo, lui mi voleva accanto a sé, me l’ha scritto in una lettera, non voleva andare da solo, non voleva ma io ero in Collegio a Pisa, io non c’ero”. Francesca aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse un foglietto ingiallito. La stessa grafia incerta che aveva vergato la foto aveva scritto: “Ho paura senza di te. Torna, non farmi andare da solo”.
Non mi fecero vedere Maria in quei giorni, ma io cominciavo a capire qualcosa di più, come in un gioco ad incastro, si formava un quadro.
Quando la rividi era sedata, parlava in modo lento e lo sguardo era spento. Dov’era finita la mia Maria, dove se ne era andata?
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Chi è il terzo che sempre ti cammina affianco?
Se io conto, ci siam soltanto tu ed io insieme
Ma se io guardo innanzi a me per la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina a fianco
Scivolando avvolto in un bruno ammanto, incappucciato
Io non so se uomo o donna
– Ma chi è che ti sta all’altro fianco?

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T.S.Eliot, La Terra Desolata

 

 

Il seppellimento dei morti. Aprile

Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.

T.S. Eliot La Terra Desolata.

Lei detesta i fiori, ne detesta l’odore acre e pungente nei cimiteri, l’odore di marcio. Maria non sa seppellire i propri morti.
Un giorno ha provato a raccontarmi il perché. Non so se dobbiamo dare credito a questi suoi racconti, sono venuti tutti dopo quella sirena nel suo cervello. Prima lei non sapeva, mi diceva sempre di ricordare poco della sua infanzia e questo le faceva male. Tutti avevano qualcosa da dire su quando erano bambini … e lei non ricordava neanche di essere stata bambina.
Maria: Mia madre non lo ammetterà mai, ma è successo. Calpestava il mio corpo, mi dava dei calci. I capelli in disordine, neri sul suo ovale pallido, bello. Allora non capivo. La colpa era mia. Ero stata cattiva. Duo o tre volte mi ha messo un coltello alla gola. Mi appiattivo contro il muro lì in cucina e la supplicavo che non mi uccidesse. Non l’avrei fatto più, mai più. Lei rideva, rideva e premeva un po’ più sulla gola. No, ne era sicura, non l’avrei più fatto, urlava. Poi si accasciava sul pavimento e piangeva piegata su se stessa. Avrei voluto consolarla. Non sapevo che era inconsolabile. L’avrei saputo dopo e l’avrei amata di più.
Mi portava davanti alla tomba e mi ordinava di pregare. E io pregavo, pregavo, pregavo … che finisse tutto, che arrivasse il momento di lasciare quell’immagine, di tornare a casa. Oppure di morire. In quell’istante. Subito. Poi mi faceva baciare l’immagine ed io diventavo di ghiaccio. Impotente, incapace di dire “no”, incapace di fuggire da quell’orrore.
Conosco il momento in cui ha preso ad amarmi. Era d’estate. Una bambina ha cominciato a tremare. D’improvviso c’è freddo, molto freddo in tutto il corpo. E già i dolori al basso ventre, terribili, lancinanti, le dicono che non sarà più come prima. Che la fine sta arrivando. Che la fine comincia proprio da lì. Che non c’è più tempo. che quando il sangue finirà, gli occhi saranno già chiusi alla vita. Appoggia la testa sul grembo della madre e piange.
E la madre prende ad accarezzarla piano sulla testa, triste. Poi le carezza il ventre per fermare il dolore. Per lenirlo. Non ci riesce e piange. Impotente. Ancora una volta inconsolabile. Le dice che sarà sempre così. Che non è più una bambina. Che ora è una donna. Che succede a tutte. Che dopo un po’ si abituerà a quel dolore, il dolore di essere donna.

Mi raggela il passaggio di Maria dall’io al lei. E’ straniante sentirla parlare di sé come di una terza persona. Ho avuto altre versioni di questa storia ma quella di Maria si è inscritta dentro di me con la forza di tutto il suo dolore. E’ una vita che Maria sconta una colpa, la colpa di essere donna, la colpa di essere nata dopo la morte di uno sconosciuto.
Maria detesta i fiori, detesta i cimiteri e non sa seppellire i propri morti e il dolore di una madre inconsolabile.
P.S. Avevo scritto un post scriptum lunghissimo che ho dovuto eliminare perchè il post ha preso un formato tutto suo. Si è mischiata la puntata del Seppellimento dei Morti con il post scriptum. Insomma un guazzabuglio incredibile. L’ho eliminato. Vi posto le mie ultime opere senza commento.
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Svirgola in blue

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Sintesi picassiana. Di due, uno. Concept work su cartone.

Il seppellimento dei morti. Follia. E poi e poi e poi … insomma multipost

Sezione 1.

Follia.

E’ successo tanto tempo fa. Era autunno, forse settembre, magari ottobre. Lei non se lo ricorda più. Pisa era la città, sì, l’aveva scelta già da un po’. Avrebbe studiato lì; tutti i segreti del diritto, della giurisprudenza le sarebbero stati svelati lì e li avrebbe approfonditi lungo l’Arno, di sera nella magia della città di Tabucchi. Era arrivata in treno una mattina presto, un indirizzo in tasca, lì vicino alla stazione. Era stato facile trovare la casa dove l’aspettavano.
Carla la conosceva già da un po’, Carla ed il suo birichino occhio sinistro che aveva preso una direzione tutta sua nel tempo, le tisane calde tutte le sere per tenersi in forma, la cura del corpo, di quel suo corpo così armonioso con un’unica nota stonata, la direzione di quel suo occhio sinistro, che dava alla sua espressione facciale una perenne aria crucciata. Poi c’era Olga, l’anziana mamma di Carla, Olga che cominciava a preparare il pranzo dieci minuti prima che Carla tornasse a casa dal lavoro e l’ora era segnata dallo strepitio delle pentole, coperchi caduti fragorosamente per terra nella fretta congestionata della preparazione, tra mille e colorite imprecazioni diverse. Maria sorrideva sempre a questi rumori e sapeva l’ora. Dieci minuti alle due.
Era stanca però Maria, una stanchezza strana in una ventenne. Il fidanzato Marco era un giovane uomo pieno di speranze. Doveva essere sua moglie questa Maria, la voleva con tutte le sue forze. Era nel suo destino questa Maria. Inizialmente si incontravano a Firenze, a mezza strada tra Pisa e Arezzo. A Firenze lui le aveva regalato una mattina uno scialle di seta dai piccolissimi fiori primaverili. Era la sua ragazza Maria, sarebbe stata sua moglie prima o poi.
Un giorno Maria entrò in libreria, ne uscì con l’ “Ulisse” di Joice e “Viaggio Sentimentale” di Vittorini.
E allora successe. Si guardava attorno cercando la strada di “casa”, la casa di Olga quando all’improvviso le sirene di un’ambulanza e dei carabinieri le penetrarono il cervello e lei divenne quel suono acuto, acuto, acuto, quel suono che non aveva fine. Cominciò a correre lungo l’Arno, veloce, veloce. Doveva correre, correre, correre e intanto il suono faceva scempio di lei. Poi all’improvviso cessò, lei si fermò e facendo fatica, facendo fatica ritrovò una direzione. A casa non disse niente, nessuno poteva capire quel suono, nessuno.
Non disse niente a Marco. Come parlare di quella sirena nella testa, come spiegare la paura, la paura … . Una mattina che doveva andare a Firenze a incontrarlo, lei fece il biglietto. Poi uscì fuori sul piazzale della stazione e cominciò a piangere lentamente lentamente. Quando Carla, che passava in macchina da lì per andare a casa, la vide lì, le si avvicinò, la prese per mano e la portò con sé. C’era paura negli occhi di Carla, anche in quel suo obliquo occhio sinistro, non sapeva cosa fare, cosa dire. Maria non si ricorda bene le sue parole, ma vede ancora la paura in quel suo sguardo.
Maria dovette andarsene da quella città, la città dove i misteri del diritto avrebbero dovuto essere svelati, la città di Tabucchi.
Maria poi si rivede in un letto, con addosso una canadese color canarino a coprire delle gambe piccole piccole. C’è penombra nella stanza, dove all’improvviso entra una ragazza che la guarda e piange e poi c’è anche una donna, la guardano. La ragazza piange, prova a trattenersi ma piange, poi scappa quando la donna dice “Non ti riconosce. Non riconosce neanche me che sono sua madre. Ma non aver paura. Passerà.”
Fine della puntata
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Sezione 2.
Ieri: sotto la suggestione del video Il mio Egitto di Marzia decido di dipingere il mio personalissimo Egitto. Oggi il mio Egitto ha preso forma e colore:

 

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Svirgola’s Ὑπατία

 

Se non conoscete Ipazia, vi consiglio di approfondire la sua figura ché fu una donna davvero straordinaria. Se volete farlo prendendo due piccioni con una fava vi consiglio il film Agorà, che è bellissimo. Non le ho inventate le tue fattezze ma le ho solo reinterpretate. Il ritratto di Ipazia è uno dei 600 ritratti funebri dei Fayyum Portraits. Strabilianti. Bellissimi.
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P.S.:  le due sezioni che sembrano staccate seguono in realtà uno stesso filo anche se il nesso non è ancora molto evidente.
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“Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?”

(T.S. Eliot, The Waste Land and Other Poems)

Il Seppellimento dei Morti. Asilo.

Lei ha lo sguardo severo, che intimorisce. Ti penetra l’anima come lama quando viene a cercarti con gli occhi e ti denuda. Spesso è triste Maria, ma quando ride, quando ride la sua risata è un fuoco che accende tutto attorno a sé di un caldo colore di rosso.
Un giorno Maria, che pure non indulge a facili confidenze, mi ha raccontato di quando era bambina, di sua madre e delle suore. Ricorda vivamente la scena quotidiana di lei e la madre, al cospetto della suora portinaia, vecchia vecchia e con tante rughe, seduta su una poltroncina nell’angusta e scura anticamera dell’orfanotrofio. La suora portinaia tutti i giorni guarda la madre negli occhi e dice “Ancora?”. La madre non risponde e scappa via in tutta fretta come se avesse qualcosa di urgente da fare … Maria tutti i giorni si chiede cosa significhi quell’ “ancora”! E si perde in storie fantastiche a riempire l’ancora misterioso della suora portinaia.
Dopo l’angusta anticamera, si entra in un enorme cortile interno, un inno alla luce, con una fontanella alla destra sormontata da una piccola Madonnina mantata di azzurro. E poi si aprono le grandi vetrate che danno accesso a una grande sala. A sinistra si affaccia la cucina con suor Giovanna sempre indaffarata dietro enormi pentoloni fumanti, suor Giovanna talvolta la porta con sé ma non le dà grande attenzione, perduta com’è dietro questi fumi odorosi, Maria però guarda ed è contenta di partecipare, in silenzio e in disparte, a questo grande rito della preparazione dei cibi. A destra della sala la grande scalinata che porta al piano alto, alle camere delle suore e delle orfanelle, quello è il luogo proibito, le è assolutamente vietato accedere a quell’ala della casa, lei non è un’ “orfanella” e Maria si accende tutti i giorni del desiderio di visitarla, perché lì si nascondono i segreti della vita vera. Così pensa Maria tutti i giorni, sì ne è certa, la vita vera della “casa” è lì, nel luogo che le è interdetto. Sempre a destra della sala di ingresso si apre l’enorme refettorio, lì si consumano i pasti, la “pasta e fagioli” di suor Giovanna e la “pasta asciutta” che è davvero asciutta, colore di rosa, ma il gusto della “pasta asciutta” di suor Giovanna, Maria se lo ricorda ancora tutto e si rammarica per non averlo mai più ritrovato altrove.
Dopo il pranzo le “orfanelle” sparecchiano in fretta e in modo festoso. Maria vorrebbe aiutarle ogni giorno, ma non può farlo, le suore non vogliono, lei non è un’ “orfanella” e Maria sta a guardare da un angolo e ha voglia di piangere perché non è giusto non essere un’orfanella. Le orfanelle la guardano dispettose, peggio per lei che non è un’orfanella e qualcuna glielo sussurra anche ogni tanto. Maria vorrebbe piangere, ma non sa farlo.
Dopo pranzo il refettorio diventa l’aula per i compiti e il doposcuola. Intorno ai quattro anni, Maria sa già scrivere, la sua prima parola è SALE e la scrive in cucina un giorno che spia suor Giovanna. Quando suor Giovanna se ne accorge, urla come una pazza dall’entusiasmo: “Scrive, scrive” e le spara un bel bacio in fronte, bacio al sapore di vaniglia. Da allora Maria comincia con la scrittura, e copia copia copia le parole della cucina per ricevere un bacio, ogni giorno dal sapore diverso, tutti i sapori di suor Giovanna.
Di sera la madre la riprende e la suora portinaia ha uno sguardo d’accusa per lei. Sempre più tardi, dice, sempre più tardi, lo sai che non è giusto così, vero? La madre abbassa gli occhi e poi scappano insieme nel buio. A casa si cena sempre in modo frugale e la sera a letto Maria sogna le grandiose cene nel refettorio e i sapori di suor Giovanna e le risate delle orfanelle. Non è giusto Signore, non è giusto borbotta. Perché non sono un’orfanella?

Il Seppellimento dei Morti. Piove.

Piove, piove da giorni ormai ed io penso a Maria.
Maria ha gli occhi grandi sempre pieni di stupore. Si incanta davanti ad un cielo stellato e piange se le racconti una storia triste. Lei conosce il perdono. Il giorno che imparò il perdono, mi telefonò di sera molto tardi e mi disse: “Sai, mio padre e mia madre sono venuti a trovarmi a Natale. Sono stati qui da me una ventina di giorni. Sono partiti ieri. All’aeroporto mi sono allontanata un attimo per andare a prendere le sigarette e quando sono tornata li ho visti da lontano tutti e due, erano spersi, si guardavano attorno e mia madre aveva le gambe fini fini sotto la gonna … e mio padre gli occhi piccoli piccoli, magro magro con tutti quei capelli bianchi! La tenerezza mi è salita dentro Giulia. Ho saputo che non verranno più a trovarmi, sono tanto vecchi … se ne andranno e forse io non ci sarò quel giorno e li lascerò andare da soli, chissà se il loro sguardo sarà sperduto come adesso o se ritroveranno la forza di tanto tempo fa, e la mia mano non stringerà la loro in questo viaggio. Mi hanno vista arrivare e mi hanno sorriso, finalmente non erano più soli. Poi ci siamo salutati e per la prima volta ho baciato mio padre. Lui non ha detto niente con le parole, ma lo sguardo Giulia, lo sguardo diceva: Grazie per avere perdonato il bastardo giocatore che sono stato ed io ho ritrovato un sorriso sul mondo”.
Pensando a Maria riesco a sorridere anche io oggi. Erano un po’ di giorni che non lo facevo. Intanto dalla finestra aperta, arriva un annuncio inquietante da un banditore al megafono, “Si avvisa la popolazione che, considerate le previsioni, potrebbero rendersi necessarie operazioni di scarico della diga sul Flumendosa”. Il cielo è plumbeo e pesante. Ora ha smesso di piovere, ma è chiaro che è solo una pausa. Tanta pioggia, tanta pioggia tutta insieme ci stringe gli animi in una morsa di paura. Questa è una zona a rischio alluvioni. L’ultima, devastante, è di 13 o 14 anni fa, io non vivevo ancora qui ma ne ho sentito tanto parlare e ho letto il terrore negli occhi dei racconti … e, nonostante l’ateismo professato e più o meno convinto, è inevitabile per me pensare: “Dio mio, fa che vada tutto bene e torni presto il sole”. E intanto ricomincia a piovere.

 

Il seppellimento dei morti. Coazione a ripetere.

Sotto questa voce entreranno a far parte dei post scritti altrove nel 2007. Trattasi di una storia incompiuta. Ogni puntata avrà un suo sottotitolo. Quello di oggi è “Coazione a ripetere”.

Coazione a ripetere

Cari amici vicini e lontani, il post di oggi parte da una domanda irrisolta che un paio di anni fa qualcuno mi ha posto: “La pace passa dal perdono?”. Ora, prima che si ingenerino equivoci di sorta, vale la pena sottolineare che a parlare è un’atea che qua e là nella sua vita ha voluto immaginarsi agnostica per non perdersi uno spiraglio di illusione di tanto in tanto.
Tutto iniziò la Domenica delle Palme di due anni fa. Alle ore 08.00 di quella domenica Maria mi telefonò. Ancora intontita dal sonno, ebbi difficoltà a capire chi mi parlava dall’altra parte del filo, di chi era la voce spezzata dal pianto che tra un singhiozzo e l’altro chiedeva:
Maria: “Ma secondo te la pace passa dal perdono? Che dici? La pace passa dal perdono?”.
Io: “Maria, Maria … che dici? Ma stai bene? Che è successo? Sicura di non aver bevuto?”
Maria: “No, no. Non ho bevuto … no”.
Io: “Bene, allora fammi capire … cosa c’è che non va?”
Maria: “Ho litigato con Gino, con Sandro e con mia madre”.
Io: “Davvero? E perché? Che ti hanno fatto?”
Maria:“Che mi hanno fatto? Niente!”
Io: “E allora? Comincio a non capire …”
Maria: “Ti spiego, sai … oggi è la domenica delle palme e … potevo sottrarmi al litigio con mezza umanità? Tu dici che potevo?”
Io (spazientita): “Senti bella e ora che cosa stai cercando di fare? Vuoi litigare anche con me? E’ questo che vuoi? Guarda che sei sulla buona strada, eh! Mi chiami alle 8.00 di un giorno di festa, mi butti giù dal letto, mi fai venire un accidenti sentendoti così concitata e in lacrime e …Ma dico io, tutti a me devono capitare i tipi strani … tutti a me? Ma insomma che vuoi?”.
Maria: “Devo raccontarti una storia.”
Io: “Adesso, proprio adesso? Puoi concedermi almeno il tempo di un caffè? E ci risentiamo tra dieci minuti …”
Maria: “Adesso, adesso. La storia non può più aspettare. Chiede di essere raccontata, ora. Che fai, l’ascolti?”
Io (tra me e me “e che dobbiamo fare? Un caffè l’avrei gradito … ma, va bene dai. Vediamo di che si tratta”): “Racconta dai. Ti ascolto”.

Storia penosa di un caso umano ovvero lacrime amare per santificare le feste
Maria: “Mio padre giocava alle carte, era un giocatore. In paese era un delirio in quegli anni. Uomini abbrutiti dalla fatica, mani callose di zappa, operai dell’Italsider, allora fabbrica delle illusioni, farmacisti e dottori tutti, superando differenze di ceto e di cultura, si riunivano nei circoli privati di sera e dilapidavano se stessi in questa cosa. Il gioco d’azzardo si stava mangiando tutti, tutti, tutti. Si giocavano le case quegli stronzi e le mogli e la terra acquistata con sudore e lacrime … e la felicità dei figli. Tutto si giocavano. Tutto. Mogli disperate andavano di notte dal prete in cerca d’aiuto, che andasse lui a recuperare quel pazzo che si stava mangiando pure l’anima in questa cosa … so di qualche moglie che non cercava mediazioni e che si presentava lì in questi circoli facendo ammutolire frotte di uomini che per un attimo avevano uno scrupolo di coscienza davanti a questa moglie scapigliata e coraggiosa … ma poi ricominciavano da dove avevano lasciato, con una furia maggiore dopo il barlume e il rimorso … bastardi!
Mio padre era un uomo buono, mai che abbia osato alzarci le mani, usciva all’alba tutte le mattine e lavorava, lavorava sodo per noi tutti, ma era un giocatore, era un giocatore.
Quando di sera si faceva bello, si sistemava e usciva, mia madre pregava. E in casa scendeva il silenzio. Tutto diventava una grande attesa silenziosa che finiva in albe amare, quando si cercava di capire dallo sguardo di lui che rientrava se ce l’avevamo ancora una casa o no, se quel fazzoletto di terra con i ciliegi era ancora nostro, se ce l’avevamo ancora una vita o se si era giocata pure quella.
I giorni peggiori erano quelli delle feste e soprattutto le vigilie. E allora in prossimità del Natale il nervosismo cresceva, cresceva su se stesso fino a sfociare in liti furibonde dove non ci facevamo mancare proprio niente, e mentre il primo dell’anno l’umanità celebrava le sue speranze, noi alzavamo calici amari pensando a lui (si era già giocato tutto?) e poi pregavamo Dio, lo stesso Dio che rinnegavamo tutti i giorni … Dio mio, Dio mio … Fa che finisca tutto questo, che finisca …
Poi un giorno finì, ma tanto tempo dopo. Lui smise di essere un giocatore ma noi eravamo troppo adulti ormai, troppo per ritrovare un senso nuovo e buono a certe feste.
E le santifichiamo così, a suon di rabbia e litigi furiosi. Fra noi in famiglia lo sappiamo come funziona, ci scanniamo un po’ e il giorno dopo ci amiamo più di sempre.
Quindi con mia madre è tutto ricomponibile, ritroveremo l’armonia domani. Ma Giulia, dimmi Giulia, come faccio a spiegare tutto questo a Gino e a Sandro? Come faccio?
E poi secondo te, la pace passa dal perdono? Sarà per questo che non sono mai in pace? Dici che lo posso perdonare quel bastardo giocatore di un padre?”
Giulia: “Non lo so, cara. Non lo so, davvero. Una sola cosa so … il 24 dicembre ho un impegno e pure il 25 e il 26, per Pasqua vado in Australia, a ferragosto ho da fare, ma tutti gli altri giorni sono libera e se ti va di raccontare le tue storie o se saranno le storie che vorranno essere raccontate, ricorda … sono sempre a tua disposizione.”

Michael Rosen e il Finlandese

Serata jazz, gin&tonic e …

Panorama umano:

Nazionalità: Finlandese. Capelli bianchi, aria piuttosto distinta e sguardo curioso. Un tipo spavaldo in un’orribile giacca con le impunture bianche ha provato a rimorchiarlo. Senza esito. Solo una microconversazione tra i due e il finlandese gli ha detto la nazionalità prima di liquidarlo in modo inappellabile! Noi ci siamo goduti la scena. Già.

Secondo Mister X, potrebbe essere un professore universitario. Sì, l’aria da intellettuale un po’ ce l’ha, ma non è detto …

E la giapponese chi è? potrebbe essere l’amante di Michael Rosen o di uno degli altri musicisti. Chissà! Si muove con gesto controllato, conosce il jazz, ne conosce le sfumature, le percepisce e le trasforma in piccoli movimenti accordati e calmi.

Diverso è il tipo con il whisky in mano. Si muove in modo scomposto, stampata in faccia una finta aria da intenditore. Non ne sa niente di jazz. Sta recitando la parte di chi ne sa. Al mio sguardo gli riesce piuttosto male.

Poi fa la comparsa sulla scena un uomo stile dandy, elegantissimo. Gusto del dettaglio. Inevitabile che il mio sguardo si appunti su di lui. Scambia qualche battuta con il Finlandese. Io e Mister X ci allontaniamo un attimo e, quando torniamo, l’uomo non c’è più. Andato via. Il posto ha perso un po’ del suo fascino di mezz’ora fa. Mister X si è perso il dandy. Non l’ha notato. Peccato. Avremmo potuto inserirlo in una trama interessante, ma non c’è stato il tempo. Solo una visione fugace. Varrebbe la pena di ritornare qui a ricercarlo prima o poi.

Michael Rosen suona il suo sax. E’ bravo. Gin&tonic e jazz. Mister X beve anche lui, una cosa giallastra con del gin. Ci sediamo. Il Finlandese è di fronte a me. Ha l’aria curiosa, ha l’aria di chi scrive. Mi sta studiando esattamente come io sto facendo con lui. Si interroga. E’ curioso. Basterebbe un solo cenno, un sorriso e sarebbe qui. Ne sono certa. Ma a me va bene così. Mi piace poterlo guardare e cucirgli addosso una storia. E’ una storia di viaggi, di incontri, forse di vizi inenarrabili. Una sorta di personaggio dall’aria decadente, uno di quelli che sembrano usciti dalla penna delirante di uno scrittore. Oppure uno scrittore che gioca a recitare il ruolo di un personaggio decadente.

Accidenti!!! Ed io sono anche senza “coppola”! L’ho dimenticata da mia madre e sto girando in questi giorni a “testa nuda”. Mi guarda così e sono senza coppola. Immaginiamo se l’avessi avuta! Chissà che storia mi avrebbe cucito addosso il finlandese dai capelli bianchi!

Michael Rosen suona e io a Mister X: Peccato che non si possa più fumare in questi posti qui, vero? Ricordi quel locale a Brera? Ti ricordi la nuvola di fumo? Che tempi, quelli! Certo, non si poteva neanche respirare, è vero … ma vuoi mettere? Jazz, gin&tonic e una sigaretta!!! Come sarebbe tutto diverso!. Mister X annuisce. Sì, ricorda. Ricorda bene, come me.

Michael Rosen suona ed io poso uno sguardo su tutti, come sempre. Su tutto, come sempre. La cameriera va e viene. Bicchieri in mano, nelle note del jazz.

A un certo punto ti guardo, Mister X, guardo proprio te. Una ruga ti spacca la fronte in modo verticale. L’aria è assorta. Riemerge adesso tutta la tua disperazione, quella che riesci a dissimulare così bene talvolta. Ti passerei la mano sulla fronte, per spianartela quella tua larga fronte e cancellare quella spaccatura.

La musica è finita. Michael Rosen è lì davanti a noi, è un omone. Ci congediamo da questa serata. Per strada camminiamo svelti. C’è freddo. A me scappa la pipì. Sì, oggi tocca a me. Non farmi ridere, Mister X. Se mi fai fare la pipì addosso, te la faccio pagare fino alla fine dei tuoi giorni, giuro. Lui ride e prova a farmi ridere. Devo fare uno sforzo tremendo per non farmela addosso. Finalmente siamo arrivati. Casa mia nella piazzetta. Taglio la piazza per fare prima. Giro lo sguardo. Mister X non c’è già più. Dal portone guardo la strada, vuota nella notte.

P.S. Sempre cercando “I mangiatori di patate” mi sono imbattuta in questa narrazione del 09.12.2007. Della serie: Scavando nel passato creiamo uno stacchetto tra un presepe e l’altro mentre Van Gogh continua a sfuggirmi.

 

Antichi rumori (quarta e ultima puntata)

Caramelle

Prima di uscire da casa tutte le sere lui si tirava fuori da una delle tasche del cappottone nero una caramella e invariabilmente mi chiedeva La vuoi una caramella ghiaccio? Ed io non avevo cuore di dirgli che queste caramelle ghiaccio mi procuravano invariabilmente il vomito. La scartavo lentamente sperando che lui intanto distogliesse lo sguardo da me consentendomi di buttarla via senza entrare in contatto con quella cosa sgradevole. Ma lui non si muoveva prima che io l’avessi introdotta in bocca. Solo allora girava le spalle e prendeva la via della porta. In quello stesso istante sputavo quella cosa nella mia mano destra stando ben attenta a non stringere quella sostanza fastidiosamente incollosa che era diventata. E, sentito il portone che si richiudeva dietro di lui, mi scollavo dal palmo della mano quella roba invischiosa e correvo in bagno a lavarmi il cavo orale accuratamente. Acqua, acqua, acqua a cancellarne il sapore. Quel freddo in gola però restava sempre per un po’ di tempo. Non ci potevo fare niente.

Una notte lui non tornò. Fu una notte lunga e senza sonno. A intervalli più o meno regolari si sentiva forte lo strepito del telaio. Tutta la notte lei tessè, furiosamente a tratti. La mattina successiva ci ritrovammo faccia a faccia. Una ruga che non le avevo mai visto prima le spaccava la fronte in modo verticale. Sull’ovale pallido gli occhi segnati di nero avevano una strana fissità. A voce bassa, tanto bassa che dovetti sforzarmi un po’ per capire mi disse: Vai a chiamare Don Donato. Il tono della sua voce era perentorio. Non osai dire alcunchè. Corsi. Arrivai al portone di Don Donato che mi mancava il fiato. Bussai fino a sbucciarmi le nocche delle dita. Niente. Non c’era. Tornai a casa più lentamente questa volta e quando le riferii che non c’era Don Donato, non c’era, lei disse Allora, devi farlo tu.

Quando per la mia prima volta misi piede nel cortile antistante il Club Lecce, la palma era scossa da un forte vento di tramontana e il cielo era una cappa di pesanti nuvole color della pece. Chissà che non nevichi, pensai. Entrando nella prima sala mi accolse lo sguardo un po’ sorpreso di una donna grassottella dietro a un lunghissimo bancone di legno. Chi sei? Mi disse. Le risposi intimidita prima di spiegarle che dovevo parlare con mio padre, dovevo dirgli una cosa da parte della mamma. Mi indicò una sala a destra e mi incitò con un gesto ad entrarci.  L’aria era impregnata di fumo e in quel fumo lo vidi: era di schiena. Papà … gli dissi ma lui niente. Guardava fissamente innanzi a sé, gli tirai un lembo del cappottone nero. Papà, gli dissi, ti devo dire una cosa … Con una voce che non gli avevo mai sentito prima, come da una distanza, mi rispose: . I tre avventori che erano al suo tavolo mi puntarono addosso tutti i loro sguardi. Lui no. Nella sala si era fatto silenzio. Papà, gli dissi, non qui … vieni di là. Lui rise forte prima di aggiungere: Ora non posso. Puoi parlare qui, siamo tra amici. Dì. Trenta secondi intercorsero tra il suo ultimo invito a parlare e la mia frase che sembrava venire da una lontananza e fu scandita chiaramente nel silenzio che c’era: La mamma ha detto che se non torni nel giro di mezzora, mi spacca il cuore come una cozza. Così dissi e subito appresso lasciai la sala. Stavo per uscire dal Club Lecce quando la donna dietro al bancone mi chiamò e La vuoi una caramella? mi disse porgendomi con un sorriso una menta-ghiaccio. La presi al volo e mi dileguai.

A casa mia madre mi aspettava in cucina. Seduta al tavolo, mi chiamo vicino a sé. Mi sedetti. Sul tavolo brillava il coltello con cui scuoiava consuetamente i conigli. Il silenzio era interrotto solo dal ticchettio dell’orologio sulla cappa del camino. Lui arrivò dopo venti minuti. L’avrebbe fatto veramente? L’avrebbe davvero potuto fare? Sì, penso di sì.

 

Antichi rumori (terza puntata)

Don Donato.

Quand’era arrivato Don Donato, la chiesa aveva preso vieppiù a riempirsi. All’inizio donne e bambini soprattutto ma poi anche gli uomini cominciarono progressivamente a fare capolino. Il successo di Don Donato, a ripensarci adesso, scaturiva da più motivi. Prima di tutto era giovane e bello e non so di quanti preti si possa dire una cosa del genere. La gioventù e la bellezza portarono per prime le donne. Coi bambini Don Donato ci giocava e quella fu la sua arma con noi. Fu il nostro personale Zorro per diversi anni e di Zorro lui aveva non solo l’aitanza e un po’ anche l’abito, ma il senso della giustizia e l’amore per i poveri. Con gli uomini fu un po’ più complicata la faccenda. Dopo capirete meglio perchè. Insomma, Don Donato riportò fervore nella nostra comunità che lo accolse per il “dono” che era. Mai nome fu più azzeccato. Fu un’oblazione continua la sua presenza tra di noi.  Non parlava solo dall’altare e non raccoglieva solo confessioni dal confessionale; al contrario credo che raccogliesse più confidenze o confessioni nel giro che periodicamente si faceva delle case del paese per verificare di persona lo stato dei bisogni della sua comunità. Don Donato si prendeva cura delle nostre anime così come il medico condotto del paese faceva con i nostri corpi. L’uno e l’altro giravano sempre con un discreto carico di vettovaglie in macchina, ché si sa che non di solo pane …

Mi ricordo una volta Don Donato, seduto al centro del divano nel salotto di casa mia. C’è freddo, come sempre. Il busto e la testa di Don Donato occupano al centro l’enorme stampa sovrastante il divano. Mi nasconde la fontana  con le damine. Intorno alla testa di Don Donato verdeggiano invece gli alberi e i cespugli del simmetrico giardino all’italiana. Don Donato ha lo sguardo corrugato, come sempre quando pensa. Mia madre seduta lì nei pressi ma su un altro divano sembra quasi una furia: Non è tornato a casa questa notte, dice, ma come fa a dimenticarsi dei suoi bambini. Se non ci fossi io qui andrebbe tutto a scatafascio … ma non ne posso più. Non ce la faccio più. Io faccio una pazzia. Don Donato gira lo sguardo verso la porta e mi vede. Fa per fermare mia madre. Non ora, le dice, non davanti alla bambina. Non la devi coinvolgere in queste cose. Questi sono fatti vostri. Lasciala fuori. E mia madre: Che lo sappia anche lei … io non ce la faccio più. Così dice e piange. Io scappo via da lì. Non riesco a vederla così. Mi si spacca il cuore. Don Donato, aiutami tu …  sono le ultime parole che riesco a percepire chiaramente.

La domenica successiva Don Donato dall’altare fece uno strano sermone che non capii fino in fondo. Alternava toni suadenti a velate minacce. A un certo punto gridò a gran voce che se non finiva presto la storia del gioco d’azzardo che stava rovinando il paese, non avrebbe esitato lui ad accompagnare i carabinieri in queste bische clandestine che si stavano mangiando tutto il buono che c’era in noi. Io mi chiedevo cosa erano queste bische che non riuscivo a immaginare bene, ne avevo solo un’idea vaga, quando vidi un certo numero di uomini abbandonare a testa bassa la chiesa mentre le donne applaudivano.