E con Pesaro sono riuscita a chiudere (forse) un po’ tutte le città delle Marche. Tu dicevi che era una gran brutta città Pesaro ma, invece, a me è piaciuta. Mi è piaciuto posare lo sguardo dove sarà capitato anche a te di posare il tuo. Per tutto il giorno ho avuto l’impressione che a camminare accanto a me e al compagno ci fosse anche il tuo basco, quello che avevi in testa in quella gelida sera d’inverno in cui sono riuscita a trascinarti al cinema. No, il cinema no … dicevi. E’ troppo intenso. Mi fa male. Vedemmo Giorni e Nuvole con Margherita Buy e Antonio Albanese. Solo grazie a questa visione posso dire con certezza che era il 2007, io molto a fatica ricordo le date e posso dire che era il 2007 perchè sono andata or ora a controllare. Sono passati già da dieci anni e sembra ieri, al cuore. Quando Anna mi ha detto che eri partito per sempre, non ci volevo credere. Pensavo che l’avesse detto solo per ferirmi. Ne ho cercato conferma che mai avrei voluto trovare. Te ne sei andato senza salutare. Mi hai lasciato qualche ricordo e il tuo basco che oggi mi ha tenuto compagnia.
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Il sigaro di Freud
Il sigaro di Freud a Neruda: “Mi scusi Neruda, si può fumare dopo le idee?”
Breve riflessione sui tempi verbali e la scrittura.
Pensavo all’effetto straniante che fa il passato remoto se riferito al “vicino”. Mi piace ma è un po’ come mettere “distanza”, un allontanarsi dal prossimo così ben definito, quasi un mettere un alone attorno alle cose, sfocare, uscire dalla nettezza delle cose e dare loro una dimensione più onirica. Il passato remoto, forse, è anche il tempo della nostalgia, è un bere al calice dolce-amaro del dolore del ritorno. E quanto ci ho bevuto io a quel calice! Quanto!
Per me adesso è il tempo del presente, del passato prossimo al più. Mi piace tenermele addosso le cose della vita, così nette, tanto violente talora, con tutti i loro colori, messi a fuoco bene, quasi impressi nella mia carne. Mi crocifiggo al presente, ora. E’ così.
Chiare, fresche e (quasi) dolci acque

Sorgente
Oggi mi sono sentita ricca, anzi no, ricchissima. Mentre quasi tutta Italia cercava riparo al caldo terribile delle ultime settimane con condizionatori e ventilatori e ghiaccioli e ghiacciolini e non so cos’altro, io sono andata alla sorgente di Torre Lapillo, che qualcuno l’altra mattina definiva “reparto geriatria”. Questo è un luogo della mia “infanzia”, cambiato sì, senza perdere, tuttavia, la magia di quel tempo. Mi ci portava mia nonna, da bambina, decantandomi sicuramente le virtù miracolose di quelle acque, virtù che mi sono state confermate due o tre mattine fa. Problemi di circolazione?distorsioni?problemi di qualsivoglia tipo persino di tristezza? Lasciateveli alle spalle, semplicemente immergendovi nelle chiare, fresche e (quasi) dolci acque della sorgente dei miracoli, la panacea (una parola femminile così piena di belle “a” non potevo proprio farmela sfuggire!) di tutti i mali del mondo.
Una penna appena appena più dotata della mia, avrebbe trovato materiale e spunti di scrittura da camparci almeno un anno nel panorama umano della sorgente, una sorta di novella agorà dei nostri tempi, dove sembravamo tutti forniti di una nuova e feconda “favella”. Io e il compagno abbiamo interagito un po’ con tutti lì, con i più diversi “tipi” umani e persino con qualche animaletto, una gatta siamese che ne sapeva sicuramente almeno una più del diavolo. Temperatura media delle acque? 12 gradi centigradi di cui abbiamo goduto del tutto gratuitamente per almeno un paio d’ore.
Ora il fatto è che io sono in partenza (vado in vacanza, sempre che prima di domattina riesca a immaginarmi e di poi prepararmi un bagaglio) e non vorrei dovere rimpiangere le mie chiare, fresche e (quasi) dolci acque, appena ri-trovate nelle prossime ore. Quali sono le previsioni pei i giorni a venire??? 😉
P.S. La foto (il punto dove la sorgente d’acqua dolce incontra il mare) non è grandiosa ma state certi che ne sentirete riparlare di queste acque e qualche altra foto, anche del contesto la posteremo.
Un giorno (tutto) questo dolore ti sarà utile
No, questa non è la recensione del libro che non ho letto. Probabilmente ne ho visto l’adattamento cinematografico qualche anno fa. La trama che ho riletto pochi minuti fa su wikipedia mi sembra nota ma al momento non saprei dire se mi è piaciuto o meno. Non ricordo. Il titolo, però … accidenti che titolo!
Lo prendo in prestito, oggi, per spiegare una cosa che di tanto in tanto mi lascio sfuggire nei commenti ma che non chiarisco mai fino in fondo perchè i commenti non sono proprio il mio forte. Nella maggior parte dei casi sono dei distillati di pensiero gettati lì a volte in forma aforistica e chissà, può essere che li capisco solo io. Della serie: me la canto e me la suono.
Tema del giorno: il dolore e la scrittura. Mi cito da alcuni miei lapidari commenti di ieri a un post meraviglioso di la MelasBacata: Io credo che si scriva sempre a partire da un “abbandono”, a partire da un “vuoto”. La felicità e la pienezza fanno scrivere poco. Arriva poi il momento di mettere argini al dolore a costo di perdere la scrittura. Il dolore deve sedimentare, poi diventa scrittura, dopo sorriso triste e dopo ancora … semplicemente vita dietro le spalle. Per me almeno è stato così.
Anche da Franz mi era capitato di commentare in modo simile e poi altrove ho definito “santa” la bluitudine che fa scrivere un’altra penna.
Oggi provo ad uscire dalla mia consueta stringatezza e provo a fare un passo in avanti. Parafrasando un libro che a suo tempo fece discutere io credo nella (relativa) banalità del dolore in sé. Il dolore di per sé è davvero poco interessante. Diventa interessante nel momento in cui si “trasforma” in scrittura, poesia, immagine, musica che forniscono un “” τέλος” entro cui inscrivere il tutto, un fine, una intenzionalità precisa.
Tra tutti i miei dolori (e nella vita una buona porzione viene servita proprio a tutti nella nostra privatissima notte oscura), sono affezionata a quelli che si sono fatti “corpo”, “scrittura”, quelli che si sono trasfigurati, che sono diventati altro da sè, si sono fatti “storia”. Ce ne sono stati altri infecondi, che se mi guardo indietro è come se si fossero volatilizzati lasciando nel vuoto dei perché senza risposta.
In questi giorni ho visto due bellissimi docufilm, uno su Amy Winehouse e un altro su Janis Joplin. Quante cose in comune tra loro, quanta passione, quanto dolore. Sono andate via troppo presto. Che peccato! Sono morte prima di imparare a “decantare” il dolore. Se ne sono fatte schiacciare. Peccato.
Nuda
Sometimes like butterflies
Fade into you
Foi Deus

Amalia
Oggi è una giornata in cui il fado portoghese ci sta tutto nella mia vita e con Amalia ci ho passato tutto il pomeriggio. Tempo ben speso.
Amiche

Amiche
E’ la mia ultima opera ed è una copia di una mia copia di Klimt. Insomma un quadro di secondo grado. Qualcuno che mi segue da un po’ ha già visto la prima. Ora le mettiamo a confronto:

Amiche a confronto
Io amo questi due quadri in modo viscerale. Ritrovo in loro tutto quello che è l’amicizia per me. Siccome ultimamente verbalizzo poco e parlo per la maggior parte del tempo per immagini, vi spiego cos’è per me amicizia attraverso le parole di uno dei più grandi scrittori contemporanei: Tahar Ben Jelloun.
Ali, questa lettera, la porto in me da anni. La leggo e la rileggo senza averla scritta. A partire dal giorno in cui mi è stata annunciata la gravità del male che mi corrodeva, sapevo che dovevo risparmiarti. Troverai questo comportamento ingiusto o strano. Ci avevamo messo più di trent’ anni a costruire questo legame, e non volevo che la malattia, la sofferenza, il dolore lo travolgessero. Perché, vedi, sono tuo amico e ho fatto con te ciò che avrei voluto tu facessi con me se la malattia avesse avuto la tracotanza di colpirti. Ebbi questa idea nel momento in cui iniziai a vedere tutto nero, quando non avevo ancora realizzato che la morte era nella vita e che andarsene non doveva in alcun modo penalizzare i vivi~La morte sono queste ore di attesa in una sala in cui devono chiamarti per farti un esame. La morte è la lettura delle analisi, il confronto dei numeri, è l’ evoluzione di ciò che è sconosciuto. La morte è il silenzio e l’ abisso che temi, li vedi avvicinarsi e inghiottirti. Non potevo evitare questo lutto e questo dolore a mia moglie e ai miei figli. Ma a te avevo la possibilità di evitarlo, attraverso un semplice litigio voluto, una messa in questione della tua onestà, sapendo che era il tuo punto debole. Dovevo allontanarti, lasciarti lontano coi tuoi dubbi, i tuoi interrogativi, la tua sensibilità violentata, con un senso profondo di ingiustizia. Allontanandoti dalla nostra amicizia, ti allontanavi dalla morte e cambiavi pagina~ La tua intelligenza, la tua forza di convinzione potevano far saltare il mio piano. Volevo evitarti la condivisione della morte, perché, conoscendoti, sapevo che tu saresti stato lì, a vivere tutti gli istanti di evoluzione del male, saresti stato accanto a me, accompagnandomi fino in fondo, e avrei letto nel tuo sguardo l’ avvicinarsi della fine, tu eri lo specchio che io non riuscivo a guardare, per debolezza, per una vanità straziata, forse anche lo confesso per una gelosia orrenda e indegna di noi; il tuo viso si sarebbe posto tra la malattia e la morte, alla frontiera dell’ abisso; avrei visto sul tuo viso l’ inizio di un grande sonno, ti ricordi il film con Humphrey Bogart?~ Abbiamo vissuto dei momenti di intensa attività soprattutto quando eravamo nelle mani di quegli idioti di militari che ci parlavano un francese approssimativo perché non riuscivano a parlare diversamente e la cosa faceva parte dell’ umiliazione che ci costringevano a subire. Tu eri forte perché sventavi tutti i loro piani di vessazione. Io mi fidavo di te. Ci completavamo a vicenda, perché io ero forte a parole, sapevo tenergli testa e, al bisogno, sapevo battermi fisicamente. I colpi, tu li ricevevi ma non sapevi renderli. Tu eri cerebrale, io fisico~ Mi sei mancato molto, soprattutto i primi anni in Svezia. Avevo voglia di farti scoprire questo paese, di condividere con te le esperienze della vita quotidiana, di discutere con te il loro modo di vivere, la loro fredda razionalità, la loro grande gentilezza, la loro cultura del rispetto, in breve: tutto ciò che manca nel nostro caro paese~ Ho approfittato della situazione geografica per visitare i paesi vicini. Ho avuto un debole per la Danimarca. Ovunque ho incontrato persone del nostro paese, alcuni esuli o esiliati politici, altri lì per lavoro, con la loro vita in quell’ angolo di mondo. Tutti mi dicevano la stessa cosa: il Marocco gli mancava anche se avevano sofferto. è strana questa relazione forte e nevrotica che abbiamo con la nostra terra natale; guarda me, che ho voluto morire nel mio paese. Forse per i nostri cimiteri. Le tombe sono disposte a caso. C’ è un disordine che non disturba nessuno. I bambini ti propongono di annaffiare la tomba che sei venuto a visitare, i contadini leggono il Corano mangiandosi la metà delle parole per la fretta e guadagnarsi comunque dieci dirham. I nostri cimiteri fanno parte della natura e non sono tristi. Se vedessi quello di Stoccolma! Freddo, ordinato, triste~ Ti ricordi quando hai avuto la tua crisi di ateismo? Mi dicevi che avresti fatto in modo di dare ai tuoi figli dei nomi di albero o di fiore. Rifiutavi qualunque riferimento religioso. Dopo hai superato questa rigidità; l’ hai sostituita con un’ altra: non sopportavi l’ ipocrisia sociale. Sull’ essenziale eravamo sempre d’ accordo~ Ho fatto fatica in questi anni di rottura. Molte volte sono stato sul punto di prendere un aereo e venire a trovarti a Tangeri per spiegarti cosa avevo fatto. Non ne ho avuto il coraggio, e poi era troppo tardi. Credevo nella mia decisione, e non avrei cambiato idea~ In questo momento, ti rendo tutto ciò che ti devo. La nostra amicizia è stata una bella avventura. Non si ferma con la morte. Fa parte di te, che vivi. Mohamed, Tangeri, luglio 2003-gennaio 2004
TAHAR BEN JELLOUN
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