Sezione 1.
Follia.
E’ successo tanto tempo fa. Era autunno, forse settembre, magari ottobre. Lei non se lo ricorda più. Pisa era la città, sì, l’aveva scelta già da un po’. Avrebbe studiato lì; tutti i segreti del diritto, della giurisprudenza le sarebbero stati svelati lì e li avrebbe approfonditi lungo l’Arno, di sera nella magia della città di Tabucchi. Era arrivata in treno una mattina presto, un indirizzo in tasca, lì vicino alla stazione. Era stato facile trovare la casa dove l’aspettavano.
Carla la conosceva già da un po’, Carla ed il suo birichino occhio sinistro che aveva preso una direzione tutta sua nel tempo, le tisane calde tutte le sere per tenersi in forma, la cura del corpo, di quel suo corpo così armonioso con un’unica nota stonata, la direzione di quel suo occhio sinistro, che dava alla sua espressione facciale una perenne aria crucciata. Poi c’era Olga, l’anziana mamma di Carla, Olga che cominciava a preparare il pranzo dieci minuti prima che Carla tornasse a casa dal lavoro e l’ora era segnata dallo strepitio delle pentole, coperchi caduti fragorosamente per terra nella fretta congestionata della preparazione, tra mille e colorite imprecazioni diverse. Maria sorrideva sempre a questi rumori e sapeva l’ora. Dieci minuti alle due.
Era stanca però Maria, una stanchezza strana in una ventenne. Il fidanzato Marco era un giovane uomo pieno di speranze. Doveva essere sua moglie questa Maria, la voleva con tutte le sue forze. Era nel suo destino questa Maria. Inizialmente si incontravano a Firenze, a mezza strada tra Pisa e Arezzo. A Firenze lui le aveva regalato una mattina uno scialle di seta dai piccolissimi fiori primaverili. Era la sua ragazza Maria, sarebbe stata sua moglie prima o poi.
Un giorno Maria entrò in libreria, ne uscì con l’ “Ulisse” di Joice e “Viaggio Sentimentale” di Vittorini.
E allora successe. Si guardava attorno cercando la strada di “casa”, la casa di Olga quando all’improvviso le sirene di un’ambulanza e dei carabinieri le penetrarono il cervello e lei divenne quel suono acuto, acuto, acuto, quel suono che non aveva fine. Cominciò a correre lungo l’Arno, veloce, veloce. Doveva correre, correre, correre e intanto il suono faceva scempio di lei. Poi all’improvviso cessò, lei si fermò e facendo fatica, facendo fatica ritrovò una direzione. A casa non disse niente, nessuno poteva capire quel suono, nessuno.
Non disse niente a Marco. Come parlare di quella sirena nella testa, come spiegare la paura, la paura … . Una mattina che doveva andare a Firenze a incontrarlo, lei fece il biglietto. Poi uscì fuori sul piazzale della stazione e cominciò a piangere lentamente lentamente. Quando Carla, che passava in macchina da lì per andare a casa, la vide lì, le si avvicinò, la prese per mano e la portò con sé. C’era paura negli occhi di Carla, anche in quel suo obliquo occhio sinistro, non sapeva cosa fare, cosa dire. Maria non si ricorda bene le sue parole, ma vede ancora la paura in quel suo sguardo.
Maria dovette andarsene da quella città, la città dove i misteri del diritto avrebbero dovuto essere svelati, la città di Tabucchi.
Maria poi si rivede in un letto, con addosso una canadese color canarino a coprire delle gambe piccole piccole. C’è penombra nella stanza, dove all’improvviso entra una ragazza che la guarda e piange e poi c’è anche una donna, la guardano. La ragazza piange, prova a trattenersi ma piange, poi scappa quando la donna dice “Non ti riconosce. Non riconosce neanche me che sono sua madre. Ma non aver paura. Passerà.”
Carla la conosceva già da un po’, Carla ed il suo birichino occhio sinistro che aveva preso una direzione tutta sua nel tempo, le tisane calde tutte le sere per tenersi in forma, la cura del corpo, di quel suo corpo così armonioso con un’unica nota stonata, la direzione di quel suo occhio sinistro, che dava alla sua espressione facciale una perenne aria crucciata. Poi c’era Olga, l’anziana mamma di Carla, Olga che cominciava a preparare il pranzo dieci minuti prima che Carla tornasse a casa dal lavoro e l’ora era segnata dallo strepitio delle pentole, coperchi caduti fragorosamente per terra nella fretta congestionata della preparazione, tra mille e colorite imprecazioni diverse. Maria sorrideva sempre a questi rumori e sapeva l’ora. Dieci minuti alle due.
Era stanca però Maria, una stanchezza strana in una ventenne. Il fidanzato Marco era un giovane uomo pieno di speranze. Doveva essere sua moglie questa Maria, la voleva con tutte le sue forze. Era nel suo destino questa Maria. Inizialmente si incontravano a Firenze, a mezza strada tra Pisa e Arezzo. A Firenze lui le aveva regalato una mattina uno scialle di seta dai piccolissimi fiori primaverili. Era la sua ragazza Maria, sarebbe stata sua moglie prima o poi.
Un giorno Maria entrò in libreria, ne uscì con l’ “Ulisse” di Joice e “Viaggio Sentimentale” di Vittorini.
E allora successe. Si guardava attorno cercando la strada di “casa”, la casa di Olga quando all’improvviso le sirene di un’ambulanza e dei carabinieri le penetrarono il cervello e lei divenne quel suono acuto, acuto, acuto, quel suono che non aveva fine. Cominciò a correre lungo l’Arno, veloce, veloce. Doveva correre, correre, correre e intanto il suono faceva scempio di lei. Poi all’improvviso cessò, lei si fermò e facendo fatica, facendo fatica ritrovò una direzione. A casa non disse niente, nessuno poteva capire quel suono, nessuno.
Non disse niente a Marco. Come parlare di quella sirena nella testa, come spiegare la paura, la paura … . Una mattina che doveva andare a Firenze a incontrarlo, lei fece il biglietto. Poi uscì fuori sul piazzale della stazione e cominciò a piangere lentamente lentamente. Quando Carla, che passava in macchina da lì per andare a casa, la vide lì, le si avvicinò, la prese per mano e la portò con sé. C’era paura negli occhi di Carla, anche in quel suo obliquo occhio sinistro, non sapeva cosa fare, cosa dire. Maria non si ricorda bene le sue parole, ma vede ancora la paura in quel suo sguardo.
Maria dovette andarsene da quella città, la città dove i misteri del diritto avrebbero dovuto essere svelati, la città di Tabucchi.
Maria poi si rivede in un letto, con addosso una canadese color canarino a coprire delle gambe piccole piccole. C’è penombra nella stanza, dove all’improvviso entra una ragazza che la guarda e piange e poi c’è anche una donna, la guardano. La ragazza piange, prova a trattenersi ma piange, poi scappa quando la donna dice “Non ti riconosce. Non riconosce neanche me che sono sua madre. Ma non aver paura. Passerà.”
Fine della puntata
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Sezione 2.
Ieri: sotto la suggestione del video Il mio Egitto di Marzia decido di dipingere il mio personalissimo Egitto. Oggi il mio Egitto ha preso forma e colore:

Svirgola’s Ὑπατία
Se non conoscete Ipazia, vi consiglio di approfondire la sua figura ché fu una donna davvero straordinaria. Se volete farlo prendendo due piccioni con una fava vi consiglio il film Agorà, che è bellissimo. Non le ho inventate le tue fattezze ma le ho solo reinterpretate. Il ritratto di Ipazia è uno dei 600 ritratti funebri dei Fayyum Portraits. Strabilianti. Bellissimi.
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P.S.: le due sezioni che sembrano staccate seguono in realtà uno stesso filo anche se il nesso non è ancora molto evidente.
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“Chi è il terzo che sempre ti cammina accanto?
Se conto, siamo soltanto tu ed io insieme
Ma quando guardo innanzi a me lungo la strada bianca
C’è sempre un altro che ti cammina accanto
Che scivola ravvolto in un ammanto bruno, incappucciato
Io non so se sia un uomo o una donna
– Ma chi è che ti sta sull’altro fianco?”
(T.S. Eliot, The Waste Land and Other Poems)
Parole forti e delicate, mi hanno toccato nel profondo. Il ritratto ha qualcosa di vivo nello sguardo. Sempre più brava…
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Grazie. 🙂
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Multipost è una bella trovata, un unico posto dove immergersi in mondo apparentemente diversi ma che è bello scoprire in qualche modo complementari…
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Mani guidate da multiforme ingegno 🙂
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(Un post che è un’esplosione di stimoli!)
A Ipazia m’inchino.
E mentre Terzo, incappucciato, mi stempera l’inquietudine tradendo il proprio affanno, Maria mi stringe il cuore..
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